Contenuti
Platone affermava che i popoli europei si trovavano sul Mar Mediterraneo come “rane attorno ad uno stagno”. Questo nostro stagno ha rappresentato nei secoli il cuore di grandi traffici economici e culturali, ma anche di ripetute scorrerie ed invasioni sia da Oriente che da Occidente. Dalle torri d’avvistamento medievali ai moderni fari di ogni porto del Mare Nostrum, la necessità di creare punti di riferimento fu sempre di capitale importanza.
Opere ingegneristiche straordinarie e iconiche, i fari illuminano i mari del Mediterraneo da più di 2000 anni, guidando i marinai verso porti sicuri. La loro funzione è stata di vitale importanza nella storia passata e continua a esserlo tutt’oggi, sebbene in misura più ridotta, per via dell’introduzione di tecnologie GPS e sistemi di navigazione elettronici all’avanguardia che consentono di attraversare le acque in sicurezza anche in totale assenza di luce.
La storia di queste sentinelle sul mare è lunga e affascinante. Nate come rudimentali forme di illuminazione marittima, i fari furono inizialmente impiegati per indicare le vie di approdo al porto, ma col tempo cominciarono a segnalare anche le insidie nascoste in mare che avrebbero potuto far naufragare le imbarcazioni. Ripercorriamo millenni di storie, usi, leggende e curiosità, partendo dalle più remote origini.
Fari nell’antichità greca: il Faro di Alessandria
La primissima testimonianza documentata relativa a un edificio portuale illuminato va ricercata in età ellenistica. Il faro per eccellenza, il primo mai conosciuto, almeno fino a oggi, fu quello di Alessandria d’Egitto, risalente al III secolo a.C.
All’epoca fu una delle strutture più alte mai costruite dall’uomo, con i suoi 110 metri di altezza, seconda solo alla Grande Piramide di Giza. Il Faro greco svettava maestoso sulla punta estrema dell’isolotto di Pharos, di fronte ai due porti naturali di Alessandria e aveva lo scopo di guidare e proteggere i marinai nei loro viaggi.
Il ricordo indelebile del Faro di Alessandria è legato alla sua fama di “meraviglia”: una delle sette del mondo antico, della quale non restano che tracce e rovine depositatesi nei fondali del porto alessandrino.

Commissionato durante il regno di Tolomeo I, e completato durante quello del successore e figlio Tolomeo II, ci vollero circa venti anni per costruirlo (dal 300 a.C. circa). Il progetto monumentale del Faro rientrava nel piano di edilizia promosso dal capostipite della dinastia tolemaica d’Egitto. Fu eretto per soddisfare una duplice funzione: segnalare il punto di ubicazione del porto di Alessandria, e celebrare la grandezza della nuova capitale egizia e del suo re.
L’architetto del Faro, il greco Sostrato di Cnido, lo progettò concependo una suddivisione geometrica in tre parti: una base quadrata, una struttura centrale ottagonale e, infine, una lanterna cilindrica posta sulla sommità dalla quale veniva irraggiata la luce. Secondo alcune fonti, inoltre, all’apice della torre era collocata una statua rappresentante il dio Zeus. La torre potrebbe esser stata dedicata, in effetti, a due divinità: Zeus e Proteo, dio greco del mare.
Il Faro di Alessandria con ogni probabilità non fu il primo ausilio per i marinai dell’antichità, ma fu senza dubbio il più monumentale. La costruzione, dove ardeva un fuoco la cui luce era riverberata a grande distanza grazie a uno specchio di bronzo lucido, rimase in piedi per alcuni secoli prima di essere inevitabilmente colpito da una serie di violenti terremoti.
Ai severi danneggiamenti sismici (soprattutto nell’VIII, IX e XIV secolo), si alternarono, tuttavia, dei tentativi riparatori e persino delle aggiunte edili sotto il califfato fatimide e, poi, sotto i mamelucchi. La funzione di lanterna della torre, invece, si interruppe nel VII secolo d.C., per mano araba.
Il Colosso di Rodi
Quello di Alessandria non è stato l’unico faro dell’antichità degno di nota. È doveroso, infatti, un cenno al celeberrimo Colosso di Rodi, anch’esso annoverato tra le sette meraviglie del mondo antico. Contrariamente a quanto si crede, questa non fu solo una statua: con ogni probabilità, svolse anche la funzione di lanterna.
Costruita nel 293 a.C. nel porto dell’antica città greca di Rodi, la gigantesca statua ferrea rivestita in bronzo raggiungeva un’altezza di 33 metri e rendeva omaggio al dio del sole Elio, protettore dell’isola in seguito alla ripresa dal lungo assedio da parte di Demetrio I Poliorcete (305 a.C.). Opera dello scultore Chares di Lyndus, anch’esso, come il Faro di Alessandria andò distrutto da un terremoto verificatosi nel 226 a.C.
Sebbene oggi non sia rimasto un singolo frammento della statua colossale, e non sia disponibile nemmeno una copia completa della sua figura, si ritiene che il Colosso avesse dovuto reggere una fiaccola nella sua mano sinistra.

Come ha chiarito il professore di storia antica greca e romana Robert B. Kebric nel suo studio intitolato: Lighting the Colossus of Rhodes: A Beacon by Day and Night, non esistono informazioni specifiche sul fatto che il Colosso di Rodi sia stato un faro, ma alcune osservazioni rendono tale ipotesi plausibile.
Tenendo conto del fatto che esso fosse situato probabilmente su un promontorio noto come Monte Smith, lo studioso afferma che: “Se tutto ciò che gli abitanti di Rodi avessero voluto fare fosse stato costruire un colossale tributo al dio Elio, avrebbero potuto facilmente farlo in cima alla vetta più alta di Rodi, il Monte Attavyros, alto quasi 4.000 piedi, sacro a Zeus e visibile sin dalle alture di Creta a circa 100 miglia di distanza. Certamente, la scelta finale per la posizione del Colosso non sarebbe stata capricciosa, ma avrebbe abbracciato nel modo più efficace tutte le loro esigenze.”
Il Colosso, dunque, sarebbe stato concepito sin dall’inizio come un faro funzionante e tale scelta avrebbe avuto un impatto determinante sul punto in cui piazzarlo. La sua funzione primaria sarebbe stata quella di guidare il traffico marino a Rodi, attraverso una fiamma che ricordasse il sole, venerato come divinità protettrice di Rodi. Alcune fonti parlano anche di una luce che continuava ad ardere durante la notte.
Fari nell’antichità romana: la Torre di Ercole
La seconda grande civiltà dell’antichità legata alla cultura dei fari fu quella romana. Nonostante non sia stato loro il merito di averli inventati, i romani seppero renderli propri, prendendo a esempio il modello greco e dandogli un’anima “moderna”.
Affezionati a queste strutture, le eressero in molte aree portuali del loro impero sempre in espansione, spingendosi anche oltre il bacino del Mediterraneo. Sfortunatamente, però, oggi restano solo poche testimonianze delle loro torri, tra cui alcune rovine e un unico faro rimasto integro.
Sembra che la prima torre luminosa romana non sia stata costruita fino ai tempi degli imperatori Augusto o Caligola, intorno alla nascita di Cristo, presso il porto di Ostia, Puteoli o Capri. Il faro romano più antico fu eretto probabilmente nel sito archeologico di Ostia. Tuttavia, come accennato pocanzi, un solo faro di epoca romana è rimasto intatto e funzionante a oggi: si tratta del Faro di La Coruña, nella Spagna galiziana, anche noto come Torre di Ercole.
Eco del Faro di Alessandria, questa torre alta 55 metri risale alla seconda metà del I secolo d.C. e presenta una base quadrata sulla quale sono sormontate due strutture esagonali.

Fonte: Alessio Damato, Wikimedia Commons; Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license.
Riconosciuto dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale dell’Umanità, “The Tower of Hercules constitutes an exceptional testimony to Roman civilization by being the only preserved example of a lighthouse of the ancient world, which, despite the time that has passed since its construction, continues to fulfil its function as a maritime signal in the 21st century.”
L’omaggio a Ercole secondo le leggende antiche, si ricollega al mito secondo cui l’eroe uccise il re despote spagnolo Gerione dopo tre lunghi giorni di battaglia. Uscito vittorioso, Ercole fondò la città di Crunia e fece costruire una torre maestosa.
Con la caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C. e l’ingresso di una nuova epoca, la costruzione dei fari subì una brusca interruzione. Al posto di questi edifici, che andarono lentamente in rovina, si ritornò a più rudimentali forme di segnalazione costiere, come i falò.
Le torri d’avvistamento saracene: ricordi di una minaccia plurisecolare
Il IX secolo fu per la Penisola italiana un’epoca di grande paura e pericolo. Infatti, i cosiddetti saraceni iniziarono a razziare regolarmente le coste in cerca di bottino e di schiavi da trarre in Nordafrica e nell’emirato di Cordoba. Già nel secolo precedente, queste bande di pirati islamici si erano scagliate con grande impeto contro le coste della Sardegna. Le violenze conseguenti mobilitarono il potere bizantino che dotò l’isola nei successivi decenni di un sistema di torri d’avvistamento e castelli atti ad individuare eventuali razziatori e permettere alle truppe locali di agire quanto più rapidamente possibile.

Fonte: Napoli Turistica.
Queste prime incursioni in terra sarda furono eseguite da gruppi originari dell’emirato di Cordoba, probabilmente in risposta alle manovre carolinge nella penisola iberica. Dal IX secolo, invece, entrarono in gioco pirati provenienti dalla Tunisia, Tripolitania e Cirenaica che presero a bersagliare la Sicilia e l’Italia meridionale. Questo provocò un graduale deterioramento dell’autorità bizantina in Trinacria, la quale vedette cadere città come Messina (843) ed Enna (859) per tutto il secolo.
I saraceni riuscirono anche a saccheggiare San Pietro nell’846 risalendo il Tevere. In seguito a ciò, papa Leone IV fece erigere le famose mura leonine che tutt’oggi cingono la Città del Vaticano. Anche i ducati longobardi e bizantini meridionali corsero ai ripari, dando il via ad una sistematica struttura di torri d’avvistamento che avrebbe caratterizzato fino ai giorni nostri la conformazione costiera del Mezzogiorno. Gli Angioini di Napoli furono i primi ad ufficializzare questa linea difensiva, puntando a creare un sistema che permettesse ad ogni torre di essere in prossimità di un’altra, così da potersi vicendevolmente avvisare di eventuali pericoli tramite segnali di fumo.
Tale tattica si rilevò solitamente funzionale, ma assolutamente non esente da imperfezioni. Il massacro di Otranto del 1480 ad opera di un esercito ottomano non poté essere scongiurato e gli invasori dovettero essere sconfitti su terra dopo la caduta della cittadina pugliese. La Sicilia e la Sardegna ampliarono a loro volta i loro sistemi difensivi. Il Cinquecento fu caratterizzato da un razionale progetto di rafforzamento degli apparati difensivi costieri del Mezzogiorno, della Sardegna e della Sicilia per volontà della corona di Spagna. La conquista di Granada, con la definitiva liberazione della penisola iberica dai mori, provocò un forte inasprimento delle scorribande islamiche.
Una delle figure cardine di queste azioni fu il famoso corsaro Khayr al-Din Barbarossa, comandante assoluto della flotta turca. Sia Carlo V che suo figlio Filippo II si prodigarono nel difendere più efficacemente le flotte iberiche ed italiane. Nel Mezzogiorno, i viceré Pietro di Toledo (1532) e Pedro Afan de Ribera (1563) ordinarono la costruzione di fortezze e torri lungo l’intera estensione costiera dell’Italia spagnola. I costi di realizzazione dovevano, però, ricadere sulle università locali. Ciò rallentò grandemente tale piano in virtù della cronica mancanza di fondi di cui soffrivano le università. Era necessario uno sforzo economico collettivo.
Dunque, venne introdotta una nuova tassa per ogni città entro dodici chilometri dalla costa per ovviare alla mancanza di denaro. In Sardegna e Sicilia, invece, la corona spagnola si mosse subito per un’amministrazione statale. In Sicilia, il Parlamento isolano fu incaricato di gestire l’organismo delle torri d’avvistamento, mentre in Sardegna fu istituito un vero e proprio organo ex novo chiamato “Reale amministrazione delle torri”. Artiglieri, soldati e personale civile erano stipendiati direttamente dalle istituzioni.

Fonte: National Geographic.
Le torri d’avvistamento caddero in disuso nell’Ottocento a seguito della definitiva sconfitta degli Stati barbareschi e, quindi, della pirateria nel Mar Mediterraneo. Le vittorie degli anglo-americani nella Prima e nella Seconda guerra barbaresca tra il 1801 e il 1816 furono la premessa per l’indebolimento dei bey di Algeri e Tripoli. La Francia, l’Italia e il Regno Unito nell’arco di 80 anni riuscirono infine nell’impresa di conquistare l’intera Africa settentrionale. L’Europa aveva appena iniziato quel processo di colonizzazione ed espansionismo che le avrebbe permesso di dominare l’Africa e l’Asia. La millenaria minaccia delle razzie islamiche era ormai giunta al termine.
Tra leggenda e realtà: Ero, Leandro e la Torre della Fanciulla
Imponenti dominatori dei mari, non si può parlare dei fari del Mediterraneo senza raccontarne le curiosità e le leggende, alcune delle quali hanno attraversato secoli di storia. Alla Turchia, ad esempio, è legata la struggente storia d’amore tra Ero e Leandro, giunta ai giorni nostri grazie alle narrazioni di Ovidio e di Museo Grammatico.
La leggenda narra di come i due giovani vivessero alle sponde opposte dell’Ellesponto, oggi noto sotto il nome di Stretto dei Dardanelli. Innamoratisi durante la stagione calda, pur di trascorrere le notti insieme, Leandro attraversa a nuoto lo Stretto. Per guidarlo nel buio, Ero lascia una candela accesa dalla sua finestra, così che l’amato non perda la strada.
La storia dei due giovani, tuttavia, ha una tragica fine: una notte d’inverno, Leandro tenta la traversata nel mare agitato. La candela che Ero lascia si spegne e, prima che la ragazza se ne accorga, Leandro perde la strada e le forze, annegando. La giovane, addolorata, pone fine alla sua vita buttandosi tra le onde: i corpi dei due verranno ritrovati abbracciati sulla spiaggia, infine ricongiuntisi.
Dei riferimenti reali a tale storia sembrerebbero essere esistiti nel tempo. Strabone, importante geografo greco antico, racconta di un faro sull’Ellesponto, chiamato proprio “torre di Ero”. Anche l’attraversamento dello Stretto dei Dardanelli non sembrerebbe del tutto una fantasia: il 3 maggio 1810, il “mad, bad and dangerous to know” Lord Byron riuscì nell’impresa del giovane Leandro.
Un faro tutt’oggi esistente, Kız Kulesi, situato a Istanbul, si ricollegherebbe alla storia dei due amanti. Uno dei nomi col quale è conosciuto, infatti, è “Torre di Leandro”, attribuendo erroneamente al Bosforo il teatro della tragedia dei due amanti, avvenuta invece sui Dardanelli.

Ma Kız Kulesi possiede anche un’altra denominazione, forse più celebre: “Torre della fanciulla”. Tale nome sarebbe legato a un’antica storia secondo la quale un oracolo predisse per la figlia favorita di un imperatore, una morte orribile, data dal morso di un serpente al giorno del diciottesimo anno.
Intimorito, il regnante fece costruire tale torre per proteggere la ragazza dai serpenti, recandovisi come unico visitatore. Giunti i diciott’anni, certo di aver vinto il destino l’imperatore portò con sé una cesta di frutta per celebrare: dal dono, tuttavia, emerse un aspide, che morse la ragazza, facendo avverare la profezia.
Dal “Mangiabarche” all’infernale Ar-Men
Non solo miti e leggende: spesso complice l’ubicazione, alcuni fari, nel corso dei secoli, si sono guadagnati una pessima reputazione. Basti pensare allo scoglio “Mangiabarche”, situato a sud della Sardegna: tale terribile nome è dovuto al gran numero di rocce improvvisamente sporgenti dall’acqua che, negli anni, causarono molteplici naufragi. Per scongiurare ulteriori catastrofi e migliorare la visibilità nella zona, venne costruito il faro che, dal 1935, rischiara il passaggio delle numerose imbarcazioni che vi si trovano di passaggio.
Un altro faro in una posizione piuttosto curiosa è quello di Strombolicchio, l’isolotto a nord est della nota isola dell’arcipelago delle Eolie dalla quale prende il nome. Secondo le leggende, questo grande “scoglio” sarebbe il “tappo” di Stromboli, scaraventato dal vulcano allo scoppiare di una forte eruzione. Secondo i geologi, tuttavia, si tratterebbe del primo edificio vulcanico, spentosi migliaia di anni fa. Sopra di esso, sono stati effettuati dei lavori di spianamento: da 70 m è passato a 56 m s.l.m., facendo spazio a un faro raggiungibile tramite 200 scalini, oggi completamente automatizzato.

Ma, il più famigerato tra i fari resta certamente Ar-Men, costruzione situata sull’omonimo scoglio in Bretagna, soprannominato dai locali “l’inferno tra gli inferni”. La storia di Ar-Men inizia con un naufragio: quella della corvetta Sané, causata dalla vasta zona di scogliere conosciuta come Chaussée de Sein. Due fari erano già presenti, per allora: il loro funzionamento, però, era limitato dalla cattiva visibilità creato dalle condizioni metereologiche instabili che caratterizzavano la zona.
Si rese necessario costruirne un terzo: si scelse Ar-Men poiché si trattava della meno peggiore tra le rocce dove edificare un faro. I lavori durarono ben 14 anni, e non senza incidenti causati dalle alte onde anomale che andavano abbattendosi sullo scoglio. Dopo l’inaugurazione, avvenuta nel 1881, ci si rese conto che la forza delle onde avrebbe abbattuto il faro: si decise dunque di irrobustirlo, con lavori che durarono dal 1897 al 1902.

Numerose sono le storie dei guardiani del faro che, negli anni, si alternarono nello svolgimento delle mansioni giornaliere per permettere alla struttura di ottemperare al proprio compito. La vita all’interno di Ar-Men non era per niente semplice: la struttura veniva costantemente colpita dai cavalloni, rimanendo spesso danneggiata e vibrando ad ogni colpo. Non solo: i guardiani pativano il freddo, e spesso condividevano inimicizie pur avendo un solo spazio condiviso, ovvero la cucina.
Si narra di un guardiano, particolarmente stanco dei due colleghi coi quali condivideva i turni, che decise di fingere la propria scomparsa. Dati i numerosi precedenti di persone ingoiate dalle onde anomale, i colleghi pensarono subito a tale evenienza, piangendone la morte. Fu allora che il collega “scomparso” riapparve a sorpresa, venendo licenziato in tronco. Il viavai di guardiani si concluse nel 1990, quando il faro venne finalmente automatizzato.
Il tentativo di revival di una bellezza senza tempo
I fari e le torri di avvistamento hanno caratterizzato millenni di storia. Nonostante si viva in un’epoca dove i più moderni ritrovati della tecnologia sono in grado di supportare al meglio la navigazione, un nostalgico “effetto revival” può essere colto in tutto il Mediterraneo. Quale esempio più evidente dei molteplici tentativi di ricostruzione del Faro di Alessandria?
Di tale idea se ne discute sin dal 1978, con numerosi progetti presentati al vaglio delle autorità egiziane. In tempi più recenti, nel 2015, si è ragionato sulla costruzione di un grattacielo al posto del luogo in cui una volta sorgeva il faro, come parte del progetto di rigenerazione del porto di Alessandria.
I fari e le torri di avvistamento, dunque, caratterizzano da secoli le vite delle popolazioni che, nel corso di centinaia di anni, sono apparse e scomparse nel bacino del Mediterraneo. Fare luce sulla loro storia, sugli usi, persino sulle leggende ad essi legate, permette di rischiarare il proprio cammino nel presente, senza perdere la fondamentale guida del passato.
A cura di Simona Rubino, Maya Rao, Antonio Iannaccone.
Rimani sempre aggiornato seguendoci su Telegram e Instagram!