Contenuti
Può una statua uccidere un uomo? Nella Grecia antica, dove gli dei camminavano tra gli uomini e i morti potevano ancora reclamare giustizia, la risposta era sì. Secondo questa logica, era inevitabile che una statua venisse quindi processata per i suoi crimini.
Teogene di Taso: campione imbattuto
Nel nord del Mar Egeo, sull’isola di Taso, visse un uomo la cui forza sembrava sfiorare quella degli dei. Si chiamava Teogene, figlio di Timosseno o, secondo una versione più leggendaria, figlio di Eracle. Fu uno degli atleti più straordinari del V secolo a.C., un’epoca in cui lo sport era sacro e l’atleta incarnava l’ideale più alto della civiltà greca. Ma la sua impresa più famosa non avvenne sul ring, né in vita, bensì da morto, sotto forma di statua.

Fu pugile, pancrazista e persino corridore. Rimase imbattuto per ventidue anni consecutivi; secondo lo storico Pausania vinse oltre 1.200 gare, forse addirittura 1.400. Partecipò alle Olimpiadi, dove conquistò la vittoria nel pugilato nel 480 a.C. e nel pancrazio nel 476. Trionfò nei Giochi Pitici, Nemei e Istmici, e fu incoronato periodonikes, prestigiosissimo titolo riservato a chi riusciva a vincere in tutte le grandi competizioni panelleniche.
Il pankration, disciplina estrema che fondeva pugilato e lotta libera, era considerato la prova più ardua per un atleta greco. Una pratica in cui quasi tutto era permesso, tranne mordere e cavare gli occhi; proprio per questo, era considerato lo sport più completo, tanto da essere ritenuto la prova massima del valore fisico e mentale di un atleta. Gli scontri potevano durare ore e spesso si concludevano per sfinimento, resa o, in casi estremi, morte.
Un pancrazista come Teogene di Taso rappresentava quindi l’apice dell’ideale atletico greco: forza, tecnica, resistenza e coraggio, ma anche disciplina e controllo.
Una statua dedicata a Teogene
Nell’antica Grecia, se la vittoria atletica era un segno degli dei, un indizio del favore divino, allora l’atleta diventava modello di virtù morale e potenza sovrumana. In alcune città, gli atleti più straordinari venivano venerati al pari degli eroi mitici, fino a diventare oggetto di culto religioso. Spesso venivano immortalati mentre sopportavano le ferite di un combattimento, come a mostrare non solo la forza fisica, ma anche la resistenza al dolore, la capacità di superare i limiti umani.
Teogene non fece eccezione. Taso, la sua città natale, eresse una statua in suo onore, realizzata dallo scultore Glaucia di Egina. Una presenza sacra collocata probabilmente in uno spazio rituale come un ginnasio, un tempio, o un altare urbano: luoghi in cui potesse essere onorata dai cittadini. Il corpo scolpito di Teogene rifletteva perfettamente l’ideale classico: nudo, muscoloso, perfettamente proporzionato, raffigurato nel momento di massimo raccoglimento dell’atleta dopo la gara.

Eppure, non tutti a Taso erano pronti a venerare Teogene. Un giorno, un suo vecchio avversario cominciò a presentarsi ogni notte davanti alla statua per colpirla. La leggenda vuole che vedesse in quella statua il simbolo di tutte le sue sconfitte, e che tentasse, a colpi di bastone, di avere l’ultima parola in un duello ormai perso da anni. Ma una notte, la statua si staccò dal basamento e gli crollò addosso, uccidendolo sul colpo.
La condanna della statua di Teogene
Il figlio dell’uomo morto denunciò formalmente la statua. Al Tribunale degli Uomini e degli Dei, sorprendentemente, la scultura fu dichiarata colpevole di omicidio e condannata all’esilio. Venne gettata in mare, come si faceva con gli assassini, privandola così della sua sacralità.
Nell’antica Grecia, esistevano vere e proprie procedure giudiziarie per oggetti inanimati che avessero causato la morte di qualcuno, anche in modo accidentale. Se una trave crollava su un uomo, o una pietra rotolava e lo uccideva, l’oggetto veniva processato, giudicato e spesso “esiliato”. Una dinamica forse insolita, ma che rispondeva ad una necessità profonda: ristabilire l’ordine cosmico e purificare la comunità dalla colpa, perché ogni morte “ingiusta” rompeva l’equilibrio tra gli uomini e gli dei.
La città di Taso, poco dopo aver esiliato la statua di Teogene, fu colpita da una terribile carestia. Le scorte diminuivano, i raccolti fallivano ed il popolo domandava una soluzione. Allora, come spesso in Grecia, l’oracolo fu interpellato e rispose con una frase enigmatica: per placare gli dei, bisognava richiamare gli esiliati. I cittadini obbedirono, ma nulla cambiò. Solo un secondo responso chiarì la verità: l’esiliato da richiamare non era un uomo, ma l’eroe stesso. Bisognava riportare a Taso la statua di Teogene per placare l’ira degli dei.
Fu così che tre pescatori recuperarono la statua dal fondale e la restituirono alla città. Appena la statua venne rimessa al suo posto, la carestia cessò. Teogene fu reintegrato come protettore della comunità, e il suo potere fu riconosciuto una volta per tutte.
In una Grecia Antica che non smette mai di sorprendere, le statue degli eroi erano vive, in un certo senso. Ricevevano offerte, venivano unte d’olio, profumate, adornate. Potevano proteggere, guarire, punire. E in certi casi… potevano anche colpire.
Rimani sempre aggiornato seguendoci su Facebook e Instagram!