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Precipua caratteristica dell’essere umano è il suo impegno nello sfidarsi, superando vecchi traguardi e stabilendone di nuovi. Sicché, quando fu inventata l’automobile, si andarono a creare nuove e coinvolgenti occasioni di sfida. Ben presto le quattro ruote divennero una passione per milioni di persone in tutta Europa e l’Italia si trasformò rapidamente in uno dei centri mondiali della tecnica automobilistica.
Gli albori dell’automobilismo sportivo
Nel 1886 debuttò quella che viene considerata la prima auto della storia: la Benz Patent Motorwagen. Nel 1894 venne già disputata la prima corsa automobilistica della storia, tenutasi sul tratto di strada che separava Parigi da Rouen. Le velocità medie in queste competizioni si aggiravano fra i 20 ed i 30km/h. È facile intuire che ci volle poco prima che si avvertisse l’esigenza di cominciare a sfidarsi esclusivamente sulla velocità.
Si iniziarono a stabilire dei record ufficiali in piano, misurando la media fra i due passaggi nelle due direzioni opposte, da effettuare entro l’arco temporale di un’ora. Ad esempio, sul finire del 1898, in Francia venne stabilito il primo record: 63km/h. Il traguardo dei 100 orari fu superato per la prima volta l’anno successivo dalla “Jamais Contente”.
Curiosamente, queste prime vetture da primato erano tutte esclusivamente elettriche dato che sia i motori a scoppio che i cambi di velocità erano ancora agli albori del loro sviluppo. Nel primo decennio del XX secolo, vennero stabiliti ben 17 record di velocità, toccando quota 186,57km/h sulla lunghezza di un miglio terrestre dalla Biltzen Benz No.1.
La “Belva” della Fiat
Attorno al 1910, Fiat decise così di sviluppare un’auto da record che potesse battere tale primato e sfondare il muro dei 200km/h. Fu pertanto costruita una vettura stupefacente anche per l’epoca, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Belva di Torino”. Trattasi della Fiat 12 Ter, passata alla storia come “S76” dal nome dell’omonimo motore che montava: il Fiat S-76A. Tale propulsore derivava strettamente da quelli che muovevano il dirigibile M.1. Si trattava di un 4 cilindri in linea da 28.353cc che era in grado di sviluppare 290cv e ben 2300nm di coppia motrice; più di 3 volte rispetto a una modernissima Ferrari 812 Superfast.
Esso fu il motore aeronautico italiano, e addirittura forse anche al mondo, con la cilindrata unitaria più grande in assoluto; ogni singolo cilindro era grande quanto sette motori dell’attuale Fiat 500. Il primo esemplare fu guidato dal pilota italiano Felice Nazzaro, lo stesso che pare abbia inspirato la passione per le corse a Enzo Ferrari. Questo bolide fu però giudicato incontrollabile e l’auto non venne più utilizzata. Il secondo esemplare ebbe, invece, una storia più fortunata.
Fu acquistata da Boris Soukhanov, un nobile russo, e in una prova non ufficiale del 1911 il pilota italiano Pietro Bordino fu già capace di raggiungere con essa i 187km/h con partenza da fermo sulla lunghezza del miglio terrestre. La stessa auto riuscì a raggiungere i 213km/h nel 1913, stracciando il precedente record di 186,57 km/h. Il primato non fu tuttavia mai riconosciuto ufficialmente in quanto era stato stabilito solamente in una direzione. Infatti, il nuovo regolamento aveva appena imposto l’obbligo del doppio passaggio nelle due direzioni opposte.
La fine dei due bolidi
Il primo esemplare fu smantellato poco dopo dalla stessa Fiat, in quanto pare che la dirigenza dell’epoca temesse dinamiche di spionaggio industriale. Il secondo esemplare invece continuò ad essere usato da Soukhanov in altri eventi sportivi, fin quando nel 1920 subì un incidente in Australia. Da questo momento in poi la storia di questo modello divenne nebulosa. Sembrerebbe che l’auto fosse stata danneggiata al punto da rimanerne solo il telaio, il quale negli anni ‘50 fu acquistato da un collezionista che lo confuse per un telaio di una S74, altra auto da corsa della Fiat di inizio secolo.
Successivamente fu acquistata negli anni ‘80 da un collezionista australiano, cosciente di acquistare i resti della mitica S76. L’auto non fu però poi più restaurata, nonostante l’iniziale desiderio del suo nuovo proprietario. Fortunosamente, dal 2002 in poi, la Belva venne riscoperta. In tale anno venne acquistata dal suo attuale proprietario: il facoltoso inglese Duncan Pittaway. Nella ferma intenzione di restaurarla, egli compì un atto proditorio necessario affinché il vecchio mostro di casa Fiat potesse di nuovo avere vita. Pittaway prese in prestito l’unico motore “tipo S-76” rimasto (quasi certamente quello della prima Fiat S76, smantellata dalla stessa Fiat) dal Politecnico di Torino, con scopi di ricerca e restauro. Al momento della restituzione fu riconsegnata una copia del motore pressoché identica esternamente, ma internamente vuota.
L’ateneo scoprì l’inganno solamente molti anni dopo quando il reato era ormai caduto in prescrizione. Il motore originale era stato quindi interamente e sapientemente restaurato. Moltissime parti dell’auto furono ricreate da zero basandosi su foto e disegni tecnici dell’epoca consentendo finalmente, dopo quasi cent’anni, di riuscire a far ruggire nuovamente l’S-76. La vettura, completamente restaurata e funzionante, debuttò al festival di Goodwood nel 2015 e continua tutt’oggi a partecipare a diversi eventi di auto storiche.
I successi italiani nei record di velocità
Il primo record ufficiale italiano di velocità giunse in seguito con la leggendaria Fiat “Mefistofele”. Siamo nel 1922. Durante una gara, una vecchia Fiat SB4 del 1908 ebbe un gravissimo guasto meccanico: il motore esplose, facendo volare in aria uno dei pistoni. Il pilota inglese Ernest Elridge decise di acquistare l’SB4 danneggiata con l’obiettivo di farne una vettura da primato. Così come il dottor Victor Frankenstein, il pilota inglese creò la sua belva stradale riciclando moltissime parti del vecchio telaio originale. Lo allungò con dei longheroni recuperati dal rottame di un vecchio torpedone e vi installò un maestoso motore aeronautico dei tempi della Grande Guerra: il Fiat A.12.
Tale propulsore era un 6 cilindri in linea, 24 valvole, avente una cubatura di 21.715cm cubici ed una potenza di circa 250cv. Il motore fu opportunamente modificato, arrivando a ben 320cv. La vettura venne soprannominata “Mefistofele”, a causa del rombo infernale che produceva il suo motore con i suoi scarichi liberi. Il funambolico veicolo presentava delle evidenti difficoltà di guida serpeggiando alle alte velocità a causa della sua genesi progettuale. Anche la frenata risultava veramente carente, dato che l’impianto frenante era ancora quello della SB4 originale. Esso agiva esclusivamente sul differenziale posteriore.
Questa creatura automobilistica, propria di un romanzo gotico, stabilì il 12 luglio del 1924 il record ufficiale di vettura più veloce al mondo raggiungendo la velocità di 234,97km/h. La Mefistofele fu anche l’ultima automobile a ottenere tale primato su una strada pubblica: la Route d’Orléans. Attualmente la velocissima Fiat riposa in esposizione presso il Centro storico Fiat di Torino. Negli ultimi anni è stata persino utilizzata in vari eventi automobilistici, dando prova di essere ancora in smagliante forma meccanica. Dopo la Mefistofele nessuna altra auto italiana riuscì a far registrare un nuovo record di velocità massima, nonostante la proverbiale sportività dell’industria automobilistica italiana.
La motivazione di ciò è probabilmente insita nelle precipue caratteristiche del nostro popolo. L’italiano evidentemente, piuttosto che verso il mero concetto di velocità, è orientato verso altri obiettivi.
La vettura sportiva italiana ancor prima che essere veloce è bella, deve guidarsi in maniera eccellente, deve produrre un suono celestiale e soprattutto deve essere in grado di trasmettere a molti una profonda e coinvolgente componente di pathos che esula dalle semplici considerazioni numeriche. L’automobile italiana è poesia e arte allo stato puro, una creatura viva che è incaricata di unire la tecnica alle emozioni.
A cura di Giampaolo Gabriele.
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