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Il tramonto del Regno: l’assedio di Civitella del Tronto

Civitella del Tronto, fortezza di confine del Regno di Napoli, resistette per ben sei mesi all'esercito piemontese in nome della sua proverbiale lealtà.

Antonio Iannaccone by Antonio Iannaccone
29 Dicembre 2023
in Paesi del Mediterraneo, Storia
Reading Time: 7 mins read
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civitella

Contenuti

  • La “Fidelissima”
  • Arrivano i Mille
  • L’ultimo giglio di Civitella
  • Un assedio infinito: l’Italia (dis)unita

Questo articolo è disponibile anche in: Inglese

Ci sono due grandi massime inerenti alla storia popolarmente conosciute: “la storia è maestra di vita” e “la storia la scrivono i vincitori”. L’assedio di Civitella del Tronto intercorso tra il 26 ottobre 1860 e il 20 marzo 1861 le racchiude entrambe. La resistenza del Real esercito napoletano assurse a testimonianza del forte rifiuto di gran parte del Meridione alla forzosa annessione piemontese.

La vittoria sabauda, però, insabbiò l’eroica difesa di Civitella e riscrisse deliberatamente in chiave ideal-patriottica la storia di quel controverso processo che fu il Risorgimento. A distanza di ormai 162 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, la verità dei vinti rivede sempre di più la luce nell’Europa post-moderna lacerata tra nichilismo e riscoperta delle proprie identità.

La “Fidelissima”

La fortezza di Civitella del Tronto era prima di tutto un simbolo. Essa difendeva il confine più settentrionale del Regno di Napoli da tempo immemore, immersa tra le fiere vette d’Abruzzo, le verdi colline del Piceno al di là del Tronto e il blu del Mar Adriatico a 589 metri sul livello del mare. La rocca si trova incastonata su una collina che si staglia sulle zone circostanti, presentando delle dorsali che cadono a strapiombo. La sua conformazione naturale le conferisce il ruolo perfetto di sentinella del Tronto.

Fu nei secoli ripetutamente protagonista di fatti d’arme, come gli assedi del 1557, 1799 e 1806 dimostrano. Essa fu in queste occasioni sempre interessata dall’attacco di truppe francesi, di cui l’ultimo del 1806 fu particolarmente significativo: il maggiore irlandese Matthew Wade difese qui eroicamente la fortezza per oltre tre mesi contro le truppe giacobine di Murat. L’ennesimo atto di fedeltà di Civitella le permise di essere insignita dal re Francesco I del titolo di “Fidelissima”.

 

Monumento Civitella
Monumento a Matthew Wade

 

Dopo i fatti del 1806, la vita all’interno della cittadina scorse molto tranquilla. La guarnigione di pace era di circa un centinaio tra ufficiali, sottufficiali e soldati semplici. Qui intere famiglie e militari vivevano invecchiando all’interno di quelle mura che prima o poi avrebbero di nuovo assolto il loro dovere bellico.

La chiamata alle armi non tardò troppo ad arrivare. Un nuovo conflitto venne a turbare quella quiete tra le messe domenicali e i balli di festa fra militi e civili. Era il 1860. Erano passati 54 anni da quei giorni di gloria del maggiore Wade. A bussare alle porte di Civitella non furono i francesi questa volta, bensì “i più francesi tra gli italiani”: i piemontesi.

Arrivano i Mille

Il telegrafo di Civitella del Tronto scosse brutalmente il tiepido susseguirsi del tempo di pace. Garibaldi era sbarcato a Marsala. Era il 15 maggio 1860. Ciò diede ufficialmente inizio a quel processo di conquista e disgregazione del Regno delle Due Sicilie.

Mentre Civitella iniziava ad approntava tutto l’occorrente per la sua difesa, le notizie dalla Sicilia e dal resto del regno erano tragiche. Gran parte dei generali napoletani aveva tradito la Corona, così come la Real Marina e diversi membri del governo borbonico. I motivi furono molteplici: c’è chi lo fece per mero interesse personale, chi per corruzione, chi per adesione all’ideale di una nuova patria unita secondo i dettami della massoneria.

 

Un vicolo di Civitella

 

Nei casi più drammatici gli ufficiali eliminarono fisicamente i propri generali nel momento in cui il patteggiamento con il nemico fosse spudorato. La Real Marina fu ceduta all’ammiraglio piemontese Persano e Don Liborio Romano, ministro degli Interni e massone, consegnò la capitale Napoli a Garibaldi il 7 settembre 1860. L’ex ministro borbonico si servì deliberatamente della camorra per gestire l’ordine pubblico della capitale in una fase di transizione di potere.

Intanto, il re Francesco II e la regina Maria Sofia ripararono a Gaeta, dove speravano di riorganizzare l’esercito e ottenere rinforzi da parte di qualche potenza europea. Le forze borboniche riuscirono a ricompattarsi in settembre e l’esercito napoletano guidato dal generale Giosuè Ritucci si attestò sul fiume Volturno pronto a dare battaglia forte di 40.000 uomini. Il 1° ottobre 1860 infuriò per ben dodici ore la battaglia del Volturno tra borbonici e camice rosse il cui esito dello scontro fu incerto.

Il generale Ritucci, a dispetto delle insistenti pressioni del re, non contrattaccò le fiaccate truppe garibaldine perdendo fatalmente lo slancio. Egli addusse ciò alla necessità di preservare le proprie forze per l’imminente discesa da nord da parte dell’esercito regolare sabaudo. Questo eccesso di prudente temporeggiamento si rivelò fatale, permettendo ai garibaldini di riprendere fiato e a Vittorio Emanuele II di superare il Tronto e incontrare Garibaldi a Teano.

Rimanevano a questo punto solo tre valorose roccaforti a difendere l’onore della Corona: Messina, Gaeta e Civitella. Ogni ulteriore resistenza sarebbe stata puramente una dimostrazione di coraggio e lealtà all’ideale di Trono e Altare che aveva funto da sostrato all’intera Civiltà Europea tradizionale.

L’ultimo giglio di Civitella

L’assedio ebbe ufficialmente inizio il 26 ottobre 1860. Civitella era in quel momento difesa da 530 uomini, molti dei quali erano giunti a rafforzare la guarnigione poche settimane prima. La Piazza era comandata dal maggiore Luigi Ascione, le cui ambigue intenzioni gli costarono una detenzione preventiva. Il comando passò al capitano napoletano Giuseppe Giovene, arrivato lì proprio in attesa dei piemontesi. Ufficiale di gendarmeria ed ex artigliere, si dimostrò un comandante intelligente, coraggioso e di carattere mite.

Fu lui a dirigere i preparativi finali prima dell’arrivo degli assediati e la sua guida ispirata funse da cardine per la strenua difesa della cittadina. Come in ogni momento fatidico della storia, diverse figure romanzesche presero parte a quei mesi escatologici per il regno borbonico. Preti mistici, coraggiosi contadini, ligi soldati e opportunisti facevano da cornice all’ultimo autunno di Francesco II.

Molti civili presero volontariamente le armi allo stesso modo dei soldati in virtù dell’atavica lealtà delle genti d’Abruzzo alla corona partenopea. Anche i cosiddetti “briganti” coadiuvarono lo sforzo dell’esercito borbonico e della popolazione in armi, fornendo azioni di schermaglia e approvvigionamenti. Intanto, la brutalità dell’invasore iniziò a palesarsi in tutta la sua violenza: il maggior generale Augusto Ferdinando Pinelli si macchiò di crimini efferati contro la popolazione meridionale.

Cittadine come Pizzoli, San Vittorino, Campli vennero passate per le armi a causa della loro ostinata fedeltà verso il re. Stupri, saccheggi, fucilazioni vennero commessi così da umiliare e tentare di piegare la resistenza dei regnicoli all’invasione. Diversi sacerdoti furono uccisi all’interno delle proprie chiese, profanate in virtù di quel liberalismo anticlericale che i napoletani avevano già profusamente conosciuto e combattuto nel 1799 e nel 1806.

 

Vista dalla fortezza

 

Questa violenza non fu poi un fulmine a ciel sereno. Diversi piemontesi come i generali Cialdini e De Sonnez provavano una forte avversione verso le genti meridionali. Il viscerale odio del primo fu talmente marcato che Giovanni Nicotera ebbe a dire su Cialdini: “I proclami di Cialdini e degli altri capi sono degni di Tamerlano, di Genghis Khan, o piuttosto di Attila”.

Nonostante l’ardua situazione, Civitella continuava eroicamente a resistere. Le sortite guidate dal capitano Giovene, così come le improvvise scorribande dei briganti, permisero di ottenere diverse piccole vittorie tattiche sulle truppe sabaude. La resistenza di Civitella fu encomiata dallo stesso sovrano Francesco II che a gennaio riuscì a comunicare con i difensori tramite un tale Filippo Enea, riuscito miracolosamente a raggiungere l’assediata Gaeta.

Giovene fu promosso a colonello, così come tutti gli altri soldati in virtù del loro eroismo. Ma il vessillo della casa regnante non poteva resistere in eterno. Il 13 febbraio Gaeta capitolò, così come Messina il 14 marzo. A Civitella scoppiò il caos, poiché tali notizie venivano considerate come menzogne del nemico affinché anche la Fedelissima si arrendesse. Giovene lasciò la fortezza a metà febbraio, poiché la caduta di Gaeta con la conseguente fuga del re a Roma avrebbe ormai tramutato giuridicamente i soldati di Civitella in briganti. Questo li avrebbe spogliati di ogni diritto bellico.

La proposta di una resa onorevole da parte del colonello napoletano fu rigettata dal resto della guarnigione che perseverò nella difesa. Il 25 febbraio vi fu l’ultimo importante fatto d’arme con un deciso assalto alle mura da parte dei sabaudi, preceduto da un violentissimo bombardamento avvenuto il giorno prima. Gli assalitori furono nuovamente respinti anche grazie al fatto che le porte erano state ormai tutte murate.

Nel frattempo, il 17 marzo Vittorio Emanuele II veniva proclamato Re d’Italia. Quella proclamazione, però, era ancora moralmente frenata dall’eroica resistenza abruzzese. La Fedelissima teneva duro ormai da quasi sei mesi e il vessillo borbonico garriva strenuamente sulla sua vetta. Il tramonto stava tuttavia tramutandosi ormai in un crepuscolo.

 

Le montagne d’Abruzzo fanno da sfondo al giglio borbonico

 

Il 20 marzo 1861, in circostanze non molto chiare, capitolava definitivamente la fortezza di Civitella e con essa il Regno delle Due Sicilie. Probabilmente un tradimento nottetempo dell’ufficiale Ascione sfuggì all’attenzione dell’ormai stremato presidio. Quel regno istituito dal normanno Ruggero II nel 1130 cessava di esistere. La bandiera della Reale Piazza non fu mai ritrovata, sepolta per sempre nei meandri della storia. La resistenza però non era ancora conclusa: bande di lealisti, monarchici e criminali comuni continuarono ad imbracciare le armi per oltre dieci anni. Ciò prese il nome di “brigantaggio” nella storiografia post-unitaria.

Un assedio infinito: l’Italia (dis)unita

I fatti di Civitella, così come tutta l’epopea risorgimentale, sono passati ad un vaglio scevro da mitici sentimentalismi solo negli ultimi anni. Le efferatezze dei generali sabaudi, dei bersaglieri, così come le intenzioni tutt’altro che patriottiche di una parte dell’élite piemontese sono riemerse in superficie. La verità di un Risorgimento sanguinoso e per nulla corale ha risvegliato un sentimento di rivalsa sopito nei cuori di molti italiani del Sud.

La destrutturazione della ricchezza del Regno, la successiva emigrazione di massa dei “terroni” al Nord con conseguente attrito tra locali ed emigranti, oltre che ad una generica diversità culturale non hanno fatto altro che esacerbare quella ferita mai sanata. Il Settentrione ha conquistato il Meridione, ma il primo non ha mai voluto mettere il secondo su un piano paritario. Non vi è mai stata una palingenesi creatrice di una nuova Patria comune dalla sintesi tra Sud e Nord.

Bensì, si è proceduto ad un’imposizione di un modello culturale vittorioso (quello settentrionale) su un modello perdente e considerato inferiore (quello meridionale). La manovalanza del Sud, assieme alle sue menti brillanti, è andata a formare l’ossatura di quella tarda rivoluzione industriale italiana che venne ad incarnarsi nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova.

La polarizzazione di risorse umane, industriali e culturali nel nord del Paese ha creato le condizioni per un impoverimento sistematico delle regioni più mediterranee. Con l’estremizzazione del processo capitalistico della polarizzazione economica, oggi concentrata principalmente su Milano, si è giunti ad un repentino depauperamento di regioni storicamente più prospere. Lo stato attuale di Roma, una capitale atrofizzata tra corruzione e immobilismo, ben rappresenta lo scarseggiare di linfa vitale nel Bel Paese del XXI secolo.

La nostra Patria è sempre più debole demograficamente ed economicamente, smarrita in un mondo in cui non riesce più a darsi uno scopo. L’atteggiamento predatorio scelto dal Piemonte nei confronti del Regno delle Due Sicilie si è, infine, ripresentato sotto altre forme con il dominio americano.

Ci rimangono due soluzioni: divenire realmente “Fratelli d’Italia” ritrovando noi stessi in una reale unità d’intenti oppure finire come i militi di Civitella, schiacciati dall’inarrestabile incedere di un mondo nuovo. La seconda opzione stavolta risulterebbe tuttavia molto meno onorevole.

 

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