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In diverse aree dell’Italia meridionale vive una delle minoranze storiche più longeve e coese del Paese: quella degli arbëreshë, o albanesi d’Italia. Distribuiti in 41 comuni e 9 frazioni tra Calabria, Sicilia, Basilicata, Molise, Campania, Puglia e Abruzzo, gli arbëreshë contano oggi oltre 100.000 persone e continuano a custodire una propria lingua, un rito religioso distintivo e tradizioni trasmesse da secoli.
Gli arbëreshë, un popolo in esilio
Gli arbëreshë sono i discendenti delle comunità albanesi che, tra il XV e il XVIII secolo, lasciarono l’Albania, l’Epiro (oggi in parte greco), la Morea e l’Attica, in seguito alla caduta dell’Impero Bizantino e all’invasione ottomana dei Balcani. A unire queste comunità fu la figura eroica di Giorgio Castriota Skanderbeg, condottiero che difese l’Albania cristiana per oltre vent’anni, diventando simbolo di resistenza in tutto l’Occidente.
Dopo la sua morte nel 1468 e la definitiva conquista dell’Albania da parte degli Ottomani, molti albanesi scelsero l’esilio. Alcuni sbarcarono in Puglia, chiamati come alleati dal re Alfonso d’Aragona; altri trovarono rifugio in terre del Regno di Napoli e della Repubblica di Venezia, fondando villaggi che oggi compongono l’Arbëria, la diaspora albanese in Italia.
La lingua del cuore
Elemento centrale dell’identità arbëreshë è la lingua, chiamata arbërisht o gluha arbëreshe, varietà derivata dal dialetto tosco dell’Albania meridionale. Nonostante cinque secoli di lontananza dalla madrepatria, l’arbërisht conserva una discreta mutua intelligibilità con l’albanese moderno. Le contaminazioni con dialetti locali, italiano e greco liturgico, hanno comunque contribuito a creare una variante unica e fortemente identitaria.

In ambito domestico e comunitario, l’arbërisht è la gluha e zëmërës, la “lingua del cuore“, contrapposta all’italiano, considerato gluha e bukës, la “lingua del pane“, usata per lavoro. La trasmissione familiare resta oggi la principale forma di conservazione linguistica. Sono state promosse, nel 1999, alcune leggi italiane volte alla tutela della diversità linguistica sul territorio, il cui risultato è stato quello di incentivare l’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole e sostenere numerose iniziative culturali.
Anche la toponomastica riflette questo dualismo identitario: i paesi arbëreshë hanno un doppio nome, in italiano e in arbërisht, come Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet), la comunità più popolosa e culturalmente attiva, situata in provincia di Palermo. Più che semplici traduzioni, sono i segni tangibili di una doppia identità, tramandata da secoli.
Mentre gli albanesi d’Italia si definiscono arbëreshë, gli albanesi dei Balcani usano per sé il termine shqiptarë. La distinzione riflette la divergenza storica ed evolutiva tra la diaspora italo-albanese e la popolazione rimasta nei territori d’origine.
Fede e cultura come appartenenza
A tenere viva la coesione etnica è stata, nei secoli, la fede cristiana di rito bizantino, tratto distintivo rispetto sia alla popolazione italiana circostante, sia agli albanesi rimasti nei Balcani e convertiti all’Islam. La Chiesa cattolica italo-albanese, sui iuris, conta oggi tre circoscrizioni ecclesiastiche e svolge un ruolo chiave nella tutela della lingua e dei costumi. Le liturgie in greco e albanese, celebrate secondo l’antica tradizione orientale, sono ancora oggi officiate in molte chiese arbëreshë, adornate di icone, canti e incensi.
Le comunità arbëreshë hanno sviluppato nei secoli una cultura profonda, radicata nella condivisione di valori familiari e comunitari. Tra gli elementi fondanti di questa struttura sociale spiccano la vatra (focolare domestico), la gjitonìa (il senso di vicinato), la vellamja (fratellanza spirituale) e la besa (fedeltà alla parola data).
A esprimere questo spirito collettivo è anche uno dei proverbi più noti della tradizione:
“Shpia e shqiptarit asht e Zotit dhe e mikut.”
(“La casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite.”)
Una massima che racchiude un codice etico profondo, in cui l’ospitalità diventa un dovere sacro: ogni ospite è accolto come una benedizione.
Un senso identitario così forte non può che riflettersi anche nel ricchissimo folklore arbëreshë, in cui memoria collettiva e tradizione orale si intrecciano attraverso leggende, proverbi, racconti e canti popolari. Al centro, vi è la volontà tenace di conservare un legame con la patria perduta e di resistere all’assimilazione. È in questo contesto che si inserisce la vallja, la danza popolare per eccellenza: una processione coreografata, eseguita durante le festività, che rievoca le vittorie di Skanderbeg contro i turchi. Le esibizioni più suggestive si tengono a Civita, San Basile, Frascineto ed Eianina.

Un patrimonio vivo
Nonostante una lunga storia di resistenza culturale, la minoranza arbëreshë ha attraversato fasi critiche. L’emigrazione verso le Americhe, in particolare tra il 1900 e il 1910, causò un forte calo demografico, portando alla scomparsa di alcune comunità e alla perdita della lingua originaria in altre. Tuttavia, negli ultimi decenni si è registrato un rinnovato interesse per la salvaguardia di questa identità: sono nate scuole bilingui, cattedre universitarie (la prima fu istituita a Napoli nel 1900), iniziative editoriali e progetti culturali.
Nel 2020, le comunità arbëreshë sono state protagoniste di una candidatura ufficiale all’UNESCO per l’inserimento delle loro pratiche tradizionali, in particolare i riti primaverili, nel Registro delle Buone Pratiche di Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. L’iniziativa, intitolata Moti i Madh (“Il Tempo Grande”), ha coinvolto università italiane e ricevuto il sostegno del governo albanese.
Preservare l’Arbëria oggi significa tutelare una componente significativa del patrimonio mediterraneo, basata sulla memoria storica, sul rito e sulla trasmissione linguistica. Le comunità arbëreshë rappresentano un esempio concreto di continuità linguistica e salvaguardia delle minoranze storiche, in un contesto contemporaneo che, invece, spinge verso una continua omologazione.
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