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Il tarantismo è un fenomeno culturale e rituale diffuso storicamente nel Sud Italia, in particolare nel Salento. Associato per secoli al morso di un ragno, la cosiddetta “taranta”, esso si manifestava in forma di crisi psico-fisiche, trattate attraverso un complesso rito musicale-coreutico. L’interpretazione di questo fenomeno, documentato fino al XX secolo, ha coinvolto ambiti medici, antropologici e religiosi.
Origini e prime attestazioni
Le prime descrizioni del tarantismo risalgono all’epoca medievale, ma il fenomeno si consolida nel corso dell’età moderna, con documentazioni più sistematiche a partire dal Seicento. Il termine deriva da “taranta”, parola dialettale che indica un ragno (Lycosidae, o Lycosa tarantula) che si credeva capace di provocare disturbi comportamentali dopo un morso.
Il tarantismo si diffonde soprattutto nelle zone rurali del Salento, in un contesto segnato da povertà, isolamento sociale e forte religiosità popolare. Le persone colpite, i tarantati, e più spesso tarantate, presentavano sintomi come stanchezza estrema, crisi isteriche, convulsioni, mutismo e atteggiamenti dissociativi. Secondo la tradizione, si verificavano soprattutto nei mesi estivi, in particolare tra giugno e luglio. Non è un caso: proprio in quel periodo si svolgeva la mietitura del grano, un’attività fisicamente e psicologicamente logorante, spesso in condizioni di forte esposizione al sole e precarietà.
Secondo la narrazione popolare, la taranta si annidava tra le spighe, e poteva mordere durante la mietitura. Tuttavia, gli studi antropologici più recenti interpretano questa immagine come un simbolo, più che un fatto reale: il grano e il ragno diventano così metafore di un disagio più profondo, legato alle condizioni di vita e ai ritmi estenuanti del mondo contadino. La crisi poteva durare diversi giorni, o ripresentarsi ciclicamente ogni anno, assumendo un carattere rituale e ricorrente. In molti casi, era vissuta come un’esperienza a metà tra malattia e rito, rafforzata dalla sua dimensione sociale.
Il rito: musica, colori e simboli
Il rituale di guarigione si svolgeva inizialmente all’aperto, poi in ambienti domestici oscurati. Le tarantate giacevano su lenzuola stese a terra, attorniate da immagini sacre (in particolare San Paolo, ritenuto il protettore dei morsi e delle guarigioni) e da oggetti simbolici come fazzoletti colorati. Ogni colore era una rievocazione di una diversa specie di taranta.
Gli strumenti utilizzati erano tipici della tradizione musicale locale: violino, fisarmonica e tamburello. I suonatori eseguivano una varietà di brani, tra cui pizziche e tarantelle, fino a trovare la melodia “giusta” in grado di smuovere la reazione della tarantata, che iniziava a dimenarsi, rotolarsi o danzare in modo convulso e ritualizzato. Il momento culminante del rito era la catarsi fisica ed emotiva, talvolta seguita da un pellegrinaggio alla cappella di San Paolo a Galatina, dove si beveva l’acqua di un pozzo ritenuto miracoloso.
La figura di San Paolo, venerato come taumaturgo e protettore contro i morsi di animali velenosi, incarnava una forma di mediazione tra il mondo terreno e quello spirituale, offrendo una cornice sacra entro cui la crisi poteva essere accolta e ritualizzata.
Spiegazioni tradizionali e interpretazioni moderne
Secondo la tradizione popolare, la causa del tarantismo era il morso di un ragno velenoso, capace di alterare il comportamento e la salute della persona colpita. La musica, secondo questa visione, aveva un effetto terapeutico, in grado di “espellere” il veleno tramite la danza.
Secondo l’antropologia culturale, con il contributo fondamentale di Ernesto De Martino nel suo saggio La terra del rimorso (1961), il tarantismo è stato reinterpretato come un fenomeno culturale e simbolico. De Martino ha sottolineato il ruolo del rito come strumento di gestione del dolore esistenziale, dei conflitti interiori e della marginalizzazione sociale, soprattutto femminile. Infatti, su 37 casi analizzati nel Salento, 32 erano donne, spesso giovani, che trovavano nel rito una forma di espressione e di liberazione dai vincoli morali e familiari.
Secondo alcune interpretazioni in ambito psichiatrico e psicodinamico, in particolare sviluppatesi nel corso del XX secolo, il tarantismo sarebbe riconducibile a forme di disturbo psicosomatico o fenomeni collettivi di tipo dissociativo. Tra gli studiosi che hanno proposto letture di questo tipo vi sono Georges Lapassade, che ha indagato le trance rituali come forme di espressione inconscia, e più recentemente alcuni autori dell’ambito della psichiatria transculturale. La ciclicità del fenomeno, l’elemento performativo e l’effetto liberatorio della danza rafforzerebbero questa ipotesi, collocando il tarantismo all’intersezione tra psicologia, antropologia e religiosità popolare.
Eredità
La tarantella, e più specificamente la pizzica, non nascono come danze festive, ma come parte integrante del rituale terapeutico. Solo successivamente, con la perdita del contesto originario, queste musiche hanno assunto una funzione ricreativa e folklorica. Oggi, la pizzica è uno dei simboli musicali più riconosciuti del Salento.
Dal punto di vista coreografico, la pizzica si distingue per i suoi movimenti rapidi, ritmati e spesso circolari. Il passo base prevede l’alternanza di battute di piede, giravolte e un’intensa interazione tra i danzatori, spesso mimando un corteggiamento o un duello simbolico. Nella sua forma originaria, legata al tarantismo, i movimenti erano invece più convulsi e irregolari, rispecchiando l’alterazione psicofisica della tarantata e seguendo un ritmo interno, più che una coreografia codificata.
Il tarantismo non è più praticato come rito di guarigione, ma sopravvive nella memoria collettiva e nelle rievocazioni culturali. Festival come La Notte della Taranta hanno contribuito alla sua riscoperta, pur trasformandolo in evento spettacolare. Tuttavia, il fenomeno rimane una testimonianza viva della complessità delle culture popolari del Mediterraneo e del modo in cui esse hanno cercato, storicamente, di affrontare sofferenze individuali attraverso il rito e la musica.
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