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Concludiamo il nostro excursus attraverso il “secolo breve” in Terra Santa con gli ultimi due principali fatti d’arme del Novecento tra Israele e mondo arabo: la prima guerra del Libano e la prima intifada. Dopo la Guerra dei Sei Giorni e dello Yom Kippur, la resistenza palestinese continuò negli Stati limitrofi provocando l’intervento militare israeliano nel vicino Libano.
Tutti contro tutti: la Guerra del Libano
L’invasione israeliana del Libano nel 1982 fu una conseguenza di una lunga serie di prodromi. In primis, il Libano era divenuto la nuova base operativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Essa si era spostata nel Libano meridionale a seguito del Settembre Nero del 1970, mese in cui il re giordano Husayn procedette con la liquidazione dei palestinesi rifugiati all’interno dei confini del suo regno.
Tale azione fu alquanto sanguinosa e la sua legittimità fu giustificata dal re asserendo che gruppi palestinesi stessero tramando di rovesciare il suo regno. L’OLP si era dunque riorganizzato anche grazie al supporto siriano e aveva creato diverse strutture militari in funzione antisraeliana. Nel 1975, il Libano era caduto in una sanguinosa guerra civile che vide contrapposte fazioni cristiane contro quelle musulmane. La Siria era intervenuta nel 1976 per frenare gli scontri tra le comunità del Libano e ciò aveva suscitato timori nell’élite d’Israele.
Damasco avrebbe potuto favorire l’ascesa di un governo libanese soggetto ai desiderata siriani aprendo la possibilità ad un’invasione d’Israele su un fronte più esteso. Tale assunto fu sposato in pieno dal primo governo Likud della storia di Menachem Begin, che intendeva seguire una politica “da falchi” nei confronti dell’OLP. Nel ’78, a seguito di un attentato palestinese in Israele, gli ebrei lanciarono l’Operazione Litani atta a distruggere le infrastrutture palestinesi nel sud del Libano.
Durante le azioni militari, Israele istituì l’Esercito del Libano del Sud. Esso aveva una forte impronta filoisraeliana ed era formato da soldati di fede cristiana. Questo fece avvicinare Tel Aviv alle Forze Libanesi guidate dal maronita Bashir Gemayel. Egli era un importante figura politica, assurto a guida dei cristiani di Beirut con lo scoppio della guerra civile. Gemayel si era dimostrato parzialmente aperto ad un’intesa con Israele, per quanto con una certa diffidenza.
Intanto, il secondo governo Likud salito al potere nel 1981 dimostrava tendenze ancora più fortemente belliciste. Il ministro della Difesa Ariel Sharon considerava inevitabile una guerra con l’OLP e la Siria ed intendeva sfruttare ciò per aumentare il peso geopolitico israeliano nell’intera area mediorientale. Israele e OLP iniziarono una forte schermaglia nel giugno 1981 che si sarebbe trasformata ben presto in una guerra vera e propria.
Gemayel e Tel Aviv aveva intanto delineato un piano comune d’attacco. L’invasione ebbe inizio ufficialmente il 6 giugno 1982, nome in codice “Operazione Pace in Galilea”. Gli obiettivi ebraici erano alquanto ambiziosi: espellere i palestinesi dal Libano; istituire un governo maronita guidato da Gemayel; espellere le truppe siriane; annientare una volta per tutte i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questi grandi obiettivi furono, però, ben presto un clamoroso fallimento.
Le Forze Libanesi non riuscirono a collegarsi a quelle israeliane e Gemayel si rifiutò di eseguire la liquidazione totale dell’OLP come precedentemente pattuito. Il maronita sapeva bene che Israele poteva essere un nemico ben peggiore dei palestinesi e non intendeva fidarsi. L’IDF continuò indefessamente le operazioni e il 1° luglio cinse d’assedio Beirut. L’assedio ebbe termine il 22 agosto con l’evacuazione dei guerriglieri palestinesi e il trasferimento del quartier generale dell’OLP a Tunisi. Gemayel era coraggiosamente riuscito a vincere le elezioni il 23 agosto anche senza il supporto ebraico, ma il suo successo fu effimero poiché un attentato terroristico lo uccise il 14 settembre.
Israele si trovava ora impelagata in un conflitto inutile, all’interno di un Paese in subbuglio e con i palestinesi che avevano semplicemente cambiato sede. Tel Aviv tentò di trovare un modo per disimpegnare quanto prima possibile le proprie truppe dalla capitale libanese e ci riuscì solo nel 1984. L’IDF abbandonò Beirut, ma continuò ad occupare il Libano meridionale fino al 2000.
L’intervento militare non aveva provocato nessun risultato tangibile, se non quello di esacerbare ancora di più la resistenza palestinese in Cisgiordania e a Gaza. Inoltre, l’offensiva israeliana aveva spinto gruppi di musulmani sciiti a fondare il Partito di Dio (Hezbollah) che aveva come obiettivo quello di scacciare le truppe israeliane dal sud del Libano. Hezbollah si sarebbe poi rafforzato anche dopo il ritiro dell’IDF nel 2000 grazie al profuso sostegno dell’Iran. Ma i problemi causati da questa avventura militare non finivano qui. Un altro vespaio sarebbe ben presto esploso in territori più vicini al cuore dello Stato ebraico.
Dalla Prima Intifada agli Accordi di Oslo
Una costante del conflitto arabo-israeliano dalla guerra del ’48 è la mancanza dei palestinesi tra gli attori principali. Essi non furono protagonisti, ma quasi “figuranti” in uno scontro che aveva assunto per decenni la forma di un conflitto per e non della Palestina. Questo aveva provocato anche dei dissapori all’interno del mondo arabo, riassumibili nei tragici giorni del Settembre Nero 1970.
I palestinesi compresero la necessità di formare un’entità squisitamente palestinesi, atte a far sì che la Palestina divenisse un attore vero e proprio nella guerra per la liberazione del suo suolo natio. Questo avvenne con la creazione della già menzionata Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1967 su consiglio di Nasser. Ma questo non fu solo la nascita di una sigla, bensì di una nuova prassi d’azione che prevedeva anche attentati terroristici in Europa per portare alla ribalta la questione palestinese.
La Guerra del Libano fu oltretutto uno spartiacque per la rinnovata violenza ebraica contro le comunità palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. Fu anche a causa di ciò che nel dicembre 1987 scoppiò con grande violenza la Prima Intifada. L’OLP era ormai ben organizzato nella sua nuova sede in Tunisia e i palestinesi erano ormai stanchi delle vessazioni a cui erano ormai soggetti dal 1967.
L’intifada mostrò i palestinesi agli occhi del mondo non più come terroristi, ma come donne e bambini intenti ad opporsi ad un regime di deportazione e repressione incommensurabilmente più potente. Il popolo della Palestina si impegnò in quattro anni di disobbedienza civile con scioperi, manifestazioni, boicottaggio di prodotti israeliani e rifiuto di pagare le tasse.
È proprio durante questi turbolenti anni d’insurrezione che il movimento islamista di Hamas (Harakat al-Muqawama al-Islamiyya) vide la luce. Hamas nacque dal dolore del popolo palestinese vessato dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Costretti a vivere in condizioni igienico-sanitarie disumane, costantemente spinti alla resistenza al dislocamento coatto e alle azioni violente dei soldati ebraici, quasi ogni famiglia gazawi aveva perso un caro nella disputa israelo-palestinese.
Qui il revanscismo islamico di Hamas trovò terreno fertile. Ogni ragazzo di Gaza sentiva di poter vendicare i propri cari e connazionali unendosi alle unità di Hamas, con il sogno di liberare l’intera Palestina. L’effetto dell’intifada fu quello di ripristinare la linea verde del ’49 e dar coraggio al popolo palestinese. Tel Aviv dovette inoltre scontrarsi ben presto con la consapevolezza dell’impossibilità di mantenere a lungo l’occupazione militare. La politica del “pugno di ferro”, infatti, non faceva altro che gettare benzina sul fuoco.
Questa impasse, assieme alla prima Guerra del Golfo, avviarono la prima reale distensione nel Medioriente tra Israele e mondo arabo. Personaggio chiave di questo processo fu il carismatico Yasser Arafat, leader dell’OLP. Egli aveva affermato nel 1988, in piena intifada, il diritto d’Israele a coesistere con la Palestina. Secondo Arafat, la soluzione all’irrisolvibile conflitto sarebbe stata quella della creazione di due Stati indipendenti sul modello del 1967.
Il governo ebraico sembrava essere scettico riguardo un accordo del genere, ma l’atteggiamento mutò quando il partito Likud fu sostituito nel 1992 da un nuovo governo laburista guidato da Yitzhak Rabin. Si giunse così agli Accordi di Oslo del 1993, firmati da Rabin e Arafat il 13 settembre sul prato della Casa Bianca. Questi accordi rappresentavano il punto di partenza per trattati successivi che avrebbero stabilito con maggiore precisione i rapporti tra uno Stato di Palestina libero e Israele.
Il mutuo riconoscimento tra i due Stati, l’elezione di un Consiglio legislativo palestinese e l’accenno ad un successivo ritiro dell’esercito israeliano fu stabilito. Nel 1994 le trattative andarono avanti con l’Accordo del Cairo in cui venivano indicate istruzioni chiare per il ritiro delle truppe dalla Palestina, il trasferimento dei poteri all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e alla polizia palestinese. Temi come le elezioni, la sicurezza, rapporti economici e il rilascio di prigionieri furono rimandate a future consultazioni.
Nel frattempo, la Giordania si unì a questo clima di intesa stipulando un vero e proprio trattato di pace nell’ottobre 1994 con lo Stato di Israele. Libano e Siria, invece, furono molto più restii a riconoscere l’entità sionista anche in virtù della mai cessata occupazione delle Alture del Golan da parte delle truppe di Tel Aviv. Questo delicato processo di normalizzazione non ebbe vita lunga. L’assassinio del Primo ministro Rabin il 5 novembre 1995 sparigliò completamente le carte in tavola.
Il partito Likud riottenne nuovamente il potere nel 1996, guidato stavolta da Benjamin Netanyahu, attualmente ancora al potere. I successivi accordi di Hebron e di Wye, infatti, non vennero mai applicati realmente. Ciò si tradusse in una rinnovata politica assertiva da parte di Israele che fece riacuire il conflitto. Hamas denunciò l’ANP per la corruzione dei suoi funzionari e la tacciò di tradimento per aver avviato trattative con i sionisti. Il nuovo secolo si aprì con la Seconda Intifada e la seconda invasione israeliana del Libano nel 2008 le cui conseguenze sono alla base degli attuali avvenimenti di fine 2023.
La questione arabo-israeliana rimane ancora oggi uno dei grandi problemi irrisolti delle relazioni internazionali. Nonostante gli innumerevoli conflitti e tentativi di pacificazione, il conflitto si è incancrenito divenendo un qualcosa di ontologicamente irrisolvibile. Esso ha seguito l’evoluzione degli scenari globali, dallo scontro tra Asse ed Alleati, fino all’alba del secolo cinese e al diffondersi di un mondo multipolare.
Potremmo azzardarci ad affermare che una sua conclusione potrà avvenire solo con un rivolgimento radicale dell’ordine mondiale stabilito a Yalta nell’ormai lontano 1945. D’altronde è noto che ogni sistema complesso presenta in nuce i suoi nodi di Gordio. Solo un colpo di spada, Alessandro Magno docet, potrà probabilmente tagliare definitivamente tali nodi.
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