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“Tripoli, bel suol d’amore”, così recitava una popolare canzone italiana del primo Novecento, narrando di una Libia vergine e prospera. In realtà, tale prosperità non era a portata di mano ma nascosta sotto anni di necessario duro lavoro. La Libia passò da territorio ottomano nominale, a colonia italiana in rivolta, fino a fiore all’occhiello del colonialismo italiano in soli trent’anni.
La grande proletaria si è mossa: la Guerra italo-turca
La storia della Libia italiana ebbe inizio con la Guerra italo-turca scoppiata nel settembre 1911. Tale conflitto rappresentava per buona parte della politica italiana un’importante prova che l’Italia unita era chiamata a superare. L’invasione fu anticipata da mesi di propaganda e accesi scontri politici. La Libia era stata dipinta come una terra indifesa e ricca di risorse dai nazionalisti e parte dei liberali.
L’opinione pubblica italiana del primo Novecento era ancora segnata dalla disfatta di Adua del 1896. La sconfitta italiana contro gli etiopi di Menelik II era piombata sul Bel Paese come una vera umiliazione. Il resto d’Europa aveva giudicato l’Italia come una nazione ancora troppo giovane e inesperta. Tutto ciò venne condito anche da commenti offensivi e denigratori circa lo spirito bellico del nostro Paese. Gli italiani erano stati feriti nell’orgoglio e la volontà di rivalsa era forte in moltissimi uomini dell’epoca.
L’opposizione ai piani coloniali in Libia si alzò solo dagli ambienti socialisti, per quanto anche all’interno di questi vi erano voci che si professassero entusiasti dell’impresa militare. Era ormai evidente: l’Italia sarebbe sbarcata in Libia dichiarando guerra al “grande malato d’Europa”, l’Impero Ottomano. Dopo un giro di consultazioni presso le altre potenze europee, Giolitti aveva ottenuto la garanzia che l’azione italiana non avrebbe provocato alcun dissapore con gli altri Stati europei.
Le danze si aprirono con un piano semplice ed efficace: i porti libici di Tripoli, Bengasi, Derna e Tobruk vennero occupati dalle truppe del Regio Esercito, scortate dalla Marina. Le flebili fortificazioni turche vennero distrutte rapidamente dalle cannoniere italiane, facilitando lo sbarco dei fanti. Le notizie delle prime vittoriose azioni provocarono ondate di entusiasmo in tutto lo Stivale.
Pascoli espresse il suo totale supporto per l’impresa con il suo famoso discorso “La grande proletaria si è mossa”. Il celeberrimo letterato vedeva nella Libia una terra in cui convogliare l’emigrazione nazionale e seguire i passi dell’Antica Roma. Per il poeta, la società italiana era intrinsecamente proletaria e popolare, ponendosi in antitesi con gli imperi “borghesi” di Gran Bretagna e Francia.
Tra i vari tenenti che presero parte all’impresa era presente anche il giovane Giovanni Messe, futuro Maresciallo d’Italia. L’ufficiale pugliese descrisse perfettamente sul suo diario di guerra le impressioni e le sensazioni dei soldati italiani in procinto di sbarcare presso le coste libiche. Tripoli appariva come un’oasi bianca circondata dalle sabbie africane, le cui linee venivano interrotte dagli alti minareti.
Il Regio Esercito sbarcò senza alcuna resistenza nella futura capitale libica. Lo stesso Messe fu meravigliato dell’accoglienza iniziale ricevuta dalla popolazione locale. Questa situazione però non durò a lungo. La strategia ottomana si sarebbe basata sulla guerriglia effettuata da rapide unità a cavallo, in virtù della netta superiorità italiana su ogni fronte. La natura desertica della Libia assieme alle schermaglie turche costrinsero gli italiani a stabilire una linea del fronte solo al di fuori delle città costiere occupate.
Le truppe metropolitane vennero coadiuvate per la prima volta da contingenti di ascari eritrei e somali che vennero fatti sbarcare come rinforzi in un secondo momento. Nel mentre, il contrattacco ottomano iniziò ad infittirsi e il 23 ottobre una forza di 10.000 soldati ottomani ed arabi caricò la linea difensiva di Tripoli. Questo fu il prodromo del massacro di Sciara Sciat. La celerità delle unità a cavallo ebbe la meglio su un contingente di cinquecento bersaglieri dell’ala destra dello schieramento italiano.
Circa metà di questi fu costretta alla resa andando verso un triste e macabro destino. Le truppe ottomano-turche seviziarono e massacrarono i bersaglieri catturati, diciassette dei quali vennero crocifissi presso l’oasi di Sciara Sciat. Il resto delle forze italiane non restò a guardare, riuscendo rapidamente a recuperare il terreno perduto. Per i poveri bersaglieri, però, era ormai troppo tardi. La terribile morte di questi commilitoni fece scattare il desiderio di vendetta in tutto lo schieramento italiano. L’eccidio di Sciarra Sciat venne vendicato il giorno dopo con estrema violenza. Diverse centinaia di autoctoni vennero passati per le armi nell’oasi di Mechiya.
Avvenimenti simili testimoniarono l’inasprimento del conflitto e la dualità del popolo libico: gli abitanti della costa tesero a collaborare con gli italiani, mentre quelli dell’entroterra si ribellarono violentemente. Questi ultimi aderirono alla jihad lanciata contro l’invasore cristiano, ingrossando le fila della schermaglia ottomana. Come è noto, le guerre sono sempre un vettore di innovazione. La guerra italo-turca non fu un’eccezione a questa regola come testimonia il primo bombardamento aereo della storia ad opera del tenente Gavotti il 1° novembre 1911.
Durante questi primi bombardamenti aerei venne ferito il futuro padre della Turchia Mustafa Kemal, impegnato nella difesa di Derna. Nonostante l’accanita resistenza, gli sforzi italiani ebbero la meglio. Tra gennaio e agosto 1912, l’Italia si assicurò il controllo dell’intera costa libica. L’invasione del Dodecaneso e lo scoppio della prima guerra balcanica obbligarono il sultano ad accettare l’armistizio e la firma del Trattato di Losanna. L’impero ottomano era ufficialmente sconfitto, ma la Libia non era ancora pacificata. I guerriglieri libici offriranno una fiera resistenza alla nuova autorità di Roma.
La spada: Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio
La pacificazione della Libia fu un processo tortuoso e difficoltoso. Lo scoppio della Prima guerra mondiale e l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915 vanificarono gli sforzi fatti fino a quel momento. La fascia costiera rimase sotto controllo italiano, mentre il deserto e gli altipiani divennero il fulcro della resistenza libica. Nei territori del Fezzan gruppi di soldati turchi comandati da Enver Pasha continuarono la lotta. La nuova colonia doveva essere necessariamente riconquistata.
La nuova impresa bellica ebbe inizio nel 1921. La logistica fu il primo grande problema che l’Alto comando italiano si trovò ad affrontare. La natura desertica della Libia interna rendeva la linea di rifornimenti estremamente allungata e soggetta a potenziali attacchi da parte delle rapide unità dei guerriglieri libici. L’effetto sorpresa e la conformazione geografica furono ulteriori importanti fattori a favore della resistenza locale.
L’Italia utilizzò estensivamente l’aeronautica. Grazie alle informazioni fornite dagli aviatori tramite le radio e l’utilizzo di ascari eritrei, supportati da autoblindo e reparti di meharisti (truppe a cammello), gli italiani si fecero strada nel Fezzan. È in questo scenario che operò Rodolfo Graziani, uno dei più celebri generali italiani del Ventennio. La riconquista della Tripolitana venne ultimata, così come la conquista del Fezzan tra il 1929 ed il 1930.
La Cirenaica risultò essere molto meno facilmente penetrabile. Essa era la terra natale del comandante partigiano libico Omar al-Mukhtar, detto il “Leone del deserto”. Al-Mukhtar divenne la figura di spicco della resistenza libica, capace di tenere in scacco le forze italiane anche dopo che Tripolitana e Fezzan erano solidamente in mano di Roma. Pietro Badoglio venne nominato governatore di Tripolitana e Cirenaica nel ’28, con l’obiettivo di velocizzare le operazioni di repressione.
Badoglio scelse il già citato Graziani come comandante sul campo. Il generale frusinate si adoperò immediatamente per la vittoria delle truppe italiane, comprendendo rapidamente i motivi del successo dei guerriglieri locali. Gli uomini di al-Mukhtar, infatti, agivano con rapidità, effettuando la tattica del “mordi e fuggi”, per poi ritirarsi nelle lande sahariane difficilmente accessibili alle truppe italiane. I popoli nomadi e semi-nomadi della Cirenaica fungevano da albero maestro della strategia di al-Mukhtar. Questi curavano i soldati feriti, rimpinguando le fila se necessario e contrabbandando armi e materiali attraverso l’Egitto.
La resistenza non venne tuttavia supportata da tutto il popolo libico. Gli abitanti delle coste accettarono di collaborare con l’Italia. Questi vennero considerati come dei traditori da Al-Mukhtar e i suoi accoliti. Spedizioni punitive atte a colpire ogni azione di collaborazione furono alquanto diffuse sulla costa. Roma comprese immediatamente che la chiave per pacificare la regione fosse ottenere il favore della popolazione. Badoglio si prodigò infatti a concedere l’amnistia a quanti decidessero di collaborare con il Regio Esercito.
Graziani diede intanto ulteriore vigore alla strategia della guerra rapida, utilizzando massicciamente le agili truppe coloniali d’Eritrea e di Libia. La politica della carota non poteva non essere corrisposta anche da quella del bastone. Nel 1930 Badoglio scelse di dividere la popolazione civile dalle bande di ribelli. Graziani avviò la deportazione di 100.000 locali dell’altopiano del Gebel così da rilocarle in campi di detenzione nei dintorni di Bengasi. Molti morirono per il sovraffollamento e le precarie condizioni igienico-sanitarie.
Questa brutale politica sortì gli effetti sperati dato che la maggior parte della popolazione fedele ad al-Mukhtar era stata ormai deportata. Le forze libiche vennero fortemente indebolite, spianando la strada all’occupazione dell’oasi di Cufra nel gennaio 1931. Graziani sfruttò il momento favorevole implementando un’ulteriore azione di pressione sul nemico. Duecentosettanta chilometri di confine libico-egiziano vennero sigillati da una linea di filo spinato, pattugliato da unità italiane.
Gli approvvigionamenti ai libici non poterono così più passare. Omar al-Mukhtar, circondato e solo, venne scovato dagli aerei italiani nel settembre 1931 e catturato. Il leader della resistenza venne impiccato a Soluch, dopo un processo sommario, il 16 dello stesso mese. A gennaio 1932, la resistenza libica era ormai totalmente piegata e Badoglio annunciò solennemente il successo delle operazioni militare e la definitiva pacificazione della colonia.
La strategia di inseguire le milizie libiche e di separare popolazione civile si era rivelata vincente per ammissione dello stesso Omar al-Mukhtar. La Libia era ora sotto il totale controllo di Roma. Molto sangue era stato versato e le armi dovevano ora lasciar il passo all’aratro.
L’aratro: Italo Balbo
Italo Balbo incarnò per la Libia un nuovo capitolo della dominazione italiana. Uomo dotato di grande carisma, era un veterano di guerra, aviatore leggendario, nonché gerarca fascista. La sua fama e la sua tendenza all’autonomia decisionale lo portarono ad essere nominato governatore delle colonie di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica. Uno dei suoi primissimi atti in quanto governatore fu la fusione delle tre colonie libiche in una sola nel 1934, ovvero la Libia italiana.
Mussolini diede così avvio ad una nuova politica e narrazione della Libia, decretando gli arabi libici “Musulmani italiani e Quarta Sponda d’Italia”. A queste parole, seguì la concessione di una cittadinanza di seconda classe, la quale garantì diversi diritti alla popolazione autoctona in accordo con la legge coranica. L’ambiente accademica italiano dell’epoca si dimostrò estremamente lungimirante nell’individuare nell’Islam una forza che sarebbe poi stata centrale per la geopolitica contemporanea.
Molti intellettuali italiani spinsero per una “consapevolezza imperiale italiana” nei confronti del mondo arabo-islamico. Tale assioma doveva basarsi sulla naturale spinta dell’Italia verso Oriente, l’Arabia e il Mar Indiano. L’Italia doveva, dunque, farsi promotrice della valorizzazione e dell’incontro tra mondo europeo cristiano e mondo orientale islamico, così da coltivare uno spirito d’amicizia tra le due anime del Mediterraneo.
Concetti come “la capacità d’Italia di farsi impero” e “Italia guida e ponte tra Europa, Mediterraneo ed Oriente” divennero alquanto dibattuti. Balbo si fece promotore in prima linea di tali idee. Il ferrarese chiuse definitivamente diversi campi di detenzione risalenti alla deportazione del Gebel voluta da Badoglio. Vennero aperte nuove scuole coraniche e ai giovani facenti parte della Gioventù araba del Littorio venne garantito l’apprendimento dell’arabo e dell’italiano. Vennero inoltre riscoperte e restaurate antiche città romane come Leptis Magna e Sabratha, simboli dell’antico passato che legavano la Libia all’Italia.
Dopo i primi tre anni di governatorato Balbo, Mussolini decise di recarsi in visita ufficiale in Libia nel 1937. Tale avvenimento fu estremamente simbolico in quanto il Duce si proclamò “protettore dell’Islam”, brandendo a cavallo la spada dell’Islam. Mussolini tentava di legittimarsi, dunque, come “califfo”. Tale pretesa mussoliniana non era un’azione priva di fondamento. Il sultano ottomano, infatti, aveva detenuto il titolo di califfo dal 1516, anno della conquista ottomana dell’Egitto mamelucco.
L’Italia aveva sconfitto l’Impero ottomano nel 1912 e, in seguito alla nascita della Repubblica di Turchia, il titolo di califfo era vacante. Tale azione ebbe un certo eco propagandistico presso i centri intellettuali musulmani. La Libia fu sottoposta a un grande programma di costruzioni, tra cui ponti, scuole, ospedali e strade. La Via Balbia, collegante la fascia costiera libica dal confine tunisino a quello egiziano, rappresentava il fiore all’occhiello dell’opera di ammodernamento italiana.
Eventi sportivi come il Gran Premio di Tripoli videro la luce. Anche l’aviazione segnò l’appartenenza della Libia all’Impero italiano. La Quarta Sponda d’Italia venne infatti unita alla madrepatria e alle altre colonie dalla Linea Impero dell’Ala Littoria, con voli settimanali da Roma verso Bengasi. Vennero anche eretti nuovi villaggi per gli abitanti berberi e libici, favorendo tuttavia l’immigrazione italiana.
I centri cittadini libici crebbero molto velocemente grazie all’immigrazione di coloni italiani. Nel 1939, circa il 35% degli abitanti di Tripoli e Bengasi erano italiani. Tale politica conciliatoria e partecipativa vide una parziale regressione sulla scia delle nuove leggi razziali. La cittadinanza libica venne resa più restrittiva, marcando maggiormente le differenze tra italiani e libici. Ciò irritò particolarmente Balbo, il quale considerava gli arabi come un popolo meritevole di rispetto.
Un estratto dalla sua “La politica sociale fascista verso gli arabi della Libia” ne riassume il pensiero:
“Noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani musulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di un grande potente organismo, l’Impero Fascista”.
Le riflessioni sul futuro della Libia vennero ad ogni modo spazzate via con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940. Balbo si era schierato contro la decisione interventista di Mussolini, suggerendo al Duce di evitare un coinvolgimento diretto nel conflitto. La guerra si rivelò infine fatale anche per lo stesso Maresciallo dell’Aria. Balbo verrà abbattuto erroneamente il 28 giugno dalla contraerea italiana di Tobruch, venendo scambiato per uno dei bombardieri inglesi che poco prima avevano tentato di attaccare le posizioni italiane.
La fine dell’esperienza italiana in Libia è segnata nel 1942 a seguito dell’avanzata inglese in Africa settentrionale. Il lavoro, i sogni, le speranze, le parole e le idee che avevano animato la Libia di quegli anni vennero così sepolti sotto la sabbia del deserto come antiche rovine romane.
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