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Quando si parla d’italiani, la Penisola italiana non è l’unica meritevole di essere menzionata. Le inestricabili maglie della storia hanno legato il Bel Paese ad un’altra penisola lontana dalle coste mediterranee. Parliamo della Crimea, la regione tanto contesa negli ultimi anni tra Mosca e Kiev. Qui resistono ancora oggi alcune centinaia di italo-crimeani estremamente fieri delle loro radici. La loro storia è stata per lungo tempo destinata ingiustamente all’oblio nonostante il loro rimarchevole ruolo per la storia della Crimea.
Una presenza di antica data
I rapporti tra Crimea e Italia affondano le proprie radici nell’antichità. Bisogna tornare indietro di un paio di millenni per scorgervi i primi inconfutabili reperti archeologici testimonianti una presenza italica. In Crimea sorgeva l’antico Regno del Bosforo Cimmerio, stato cliente dell’Impero Romano a partire dal I secolo d.C. Le città più importanti di questo regno ellenico prosperavano attorno allo stretto di Kerch, unico passaggio per giungere nel mar d’Azov.
Quest’area geografica era per i romani un fondamentale punto d’appoggio commerciale, fulcro degli scambi economici con i popoli delle sterminate pianure sarmatiche. La sottomissione politica del regno ivi presente permetteva a Roma anche di detenere un controllo assoluto sul Ponto Eussino (Mar Nero). Così come oggi, la Crimea era la chiave per il predominio su questo importante mare. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. segnò solo una temporanea fine della presenza italiana in quest’area.
Dopo circa 800 anni, furono le due principali città marinare di Venezia e Genova ad affacciarsi nuovamente sulle coste crimeane. Le due repubbliche erano determinate nello stabilire dei saldi avamposti commerciali che permettessero loro di fare affari con il mondo russo-tataro. Dopo un’iniziale presenza veneziana a seguito del sacco di Costantinopoli del 1204, i genovesi scalzarono i loro acerrimi nemici nel 1261. Qui la Superba creò ben undici basi commerciali, di cui quattro fortificate: Cembalo (Balaklava), Soldaia (Soudak), Caffa (Feodosia) e Vosporo (Kerch).
Queste fortezze funsero da solido scudo per i commerci genovesi nel Mar Nero e nel Mar d’Azov, sul quale i genovesi possedevano il notevole emporio di Tana (vicino l’attuale Rostov sul Don). Il periodo genovese rappresentò un momento generalmente florido per la Crimea meridionale. Molti liguri vi si insediarono e l’area era anche frequentata da altri mercanti italiani. Questa zona periferica d’Europa fu inconsapevolmente anche origine dell’evento più disastroso per il Medioevo del Vecchio Continente.
Nel XIV secolo, Caffa fu assediata dai tatari dell’Orda d’Oro che, frustrati dalla tenace resistenza genovese, provarono la carta della guerra batteriologica. I cadaveri dei militi morti per malattia furono gettati all’interno delle mura cittadine, causando un’epidemia di peste. Gli assedianti non riuscirono a conquistare la città, ma gli assediati furono costretti comunque alla fuga a causa della pestilenza. Le navi genovesi finirono così per trasportare il germe della peste a Genova e, da qui, in tutta Europa.
Gli equilibri regionali vennero a rompersi nel XV secolo, quando la tragica caduta di Costantinopoli del 1453 presagì l’inarrestabile ascesa dell’Impero ottomano. Poco più di vent’anni dopo, infatti, Mehmet II procedette con la conquista di tutte le roccaforti genovesi, dando il via ad un lungo periodo di dominazione turca. L’invasione ottomana fu per i genovesi un’immane tragedia. Molti perirono o furono resi schiavi, altri riuscirono a far ritorno in madrepatria, alcuni si rifugiarono in Ucraina o in Circassia.
Alcuni fortunati e coriacei contadini e abitanti di origine italiana non abbandonarono la Crimea, ma il loro numero era ormai esiguo. Questo causò nell’arco di cento anni la loro assimilazione alla nuova cultura dominante tataro-ottomana. Per la seconda volta nella storia il filo che collegava il Bel Paese alla Crimea veniva bruscamente tranciato. Ma tale interruzione non fu altrettanto definitiva: l’ascesa dell’Impero russo avrebbe permesso nuovamente a diversi italiani di cercare qui fortuna.
Gli Italiani di Crimea da Caterina la Grande alla Rivoluzione d’Ottobre
Le cocenti sconfitte subite dagli ottomani nel Settecento ad opera di austriaci e russi avviarono il progressivo processo di ridimensionamento della Sublime Porta in tutta Europa. La Crimea fu ben presto l’obiettivo dell’espansionismo russo, in nuce proiettato verso i mari caldi meridionali. La guerra russo-ottomana del 1768-1774 e quella del 1787-1792 decretarono la conquista russa delle attuali coste ucraine e della penisola crimeana.
È proprio in questo momento che vennero a crearsi i presupposti per una nuova immigrazione italiana. Questa fu favorita dalla necessità di Caterina la Grande di ripopolare la Crimea, provata dai lunghi anni di guerra. Tale iniziale progetto attrasse corsi, genovesi, sardi e toscani. Questo tentativo non andò tuttavia a buon fine, spingendo i primi coloni a far ritorno alle proprie terre natie o a disperdersi nei territori limitrofi. Nuovi flussi migratori italiani si ebbero in seguito alle guerre napoleoniche.
Nel 1820 vivevano ormai 30 famiglie italiane originarie di molteplici regioni. Dal 1830 fino all’inizio del ‘900, nuovi gruppi si stanziarono in Crimea, andandosi ad aggiungere a quelle famiglie di pionieri già presenti dall’inizio del secolo. Sono proprio da queste comunità che discendono gli attuali italiani di Crimea rimasti. La loro origine era principalmente pugliese, ligure e campana di estrazione sociale agricola e marinaia.
Ben presto, però, anche individui più specializzati come architetti, notai, medici ed artisti ingrossarono la comunità italofona. L’arrivo degli italiani fu favorito dallo stesso zar Nicola I anche in virtù della crescente intesa tra Regno delle Due Sicilie e Impero Russo a metà ‘800. La città di Kerch divenne il centro con il maggior numero di italiani, ma anche Feodosia (l’antica Caffa) e Simferopoli furono interessate dalla rinascita di comunità italofone.
La presenza italiana è ancora oggi simboleggiata dalla Chiesa cattolica di Santa Maria Assunta di Kerch costruita tra il 1831 e il 1845, in stile neoclassico, finanziata e costruita interamente dalla comunità cittadina. Essa è al giorno d’oggi ancora conosciuta popolarmente come “la chiesa degli Italiani”. È proprio in questo periodo, inoltre, che i due principali Stati italiani preunitari, Regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna, aprirono un proprio consolato a Kerch.
Alla vigilia del Primo conflitto mondiale, la comunità italiana della provincia di Kerch ammontava al 2% dell’intera popolazione secondo i dati del censimento russo. Il suo tasso di crescita era molto elevato, tanto che alcuni italo-crimeani si spostarono anche al di fuori della Crimea per andare ad ingrossare le comunità italiane “sorelle” presenti anche in altre città del Mar Nero come Odessa, Mariupol, Donetsk, Batumi e Novorossijsk.
Prima dell’avvento dei bolscevichi, a Kerch erano presenti una scuola elementare italiana, una biblioteca, una sala riunione ed un club culturale italiano. Inoltre, il giornale locale Kerčenskij Rabocij pubblicava regolarmente articoli redatti nella lingua del Bel Paese. Le condizioni sociopolitiche per gli italiani di Crimea erano, però, nuovamente sul punto di essere spazzate via. Il vento della Rivoluzione d’Ottobre stava iniziando a sferzare sulle coste delle antiche città genovesi.
Dallo sterminio sovietico a Vladimir Putin
La nuova élite sovietica iniziò a curarsi degli italiani di Crimea a partire dalla metà degli anni ’20. Essi erano visti con sospetto, poiché potenziali cospiratori e simpatizzanti del fascismo che proprio in quegli anni andava consolidandosi in Italia. Si decise, dunque, di procedere ad una “rieducazione” della minoranza tramite l’immissione di esuli italiani antifascisti che avrebbero sorvegliato le azioni e le intenzioni degli italo-crimeani, prodigandosi anche nel diffondere alacremente gli ideali del socialismo.
Si procedette con la chiusura della chiesa di Santa Maria Assunta, così da reprimere il sentimento religioso dei fedeli. Inoltre, alla luce della collettivizzazione forzata delle campagne, si intimò agli italiani di dar vita al kolchoz (fattoria collettiva) “Sacco e Vanzetti”. Chiunque fosse contrario a questa nuova prassi era destinato o all’esilio o all’arresto. Gli effetti del nuovo corso sovietico non tardarono ad arrivare. A metà degli anni Trenta, gli italiani erano già scesi all’1,3% degli abitanti della provincia di Kerch.
Ma la repressione italiana era soltanto all’inizio. Il consolidamento della prassi politica staliniana non risparmiò nemmeno la Crimea. Le purghe avviate dal dittatore georgiano tra 1935 e 1938 fecero sparire nel nulla molti italiani, accusati o di filofascismo o di spionaggio. L’opera di sterminio ebbe, infine, il suo apice nella notte tra il 29 e il 30 gennaio 1942 in cui la quasi totalità degli italiani, antifascisti inclusi, fu deportata in Kazakhstan. Le accuse erano di collaborazione con il nemico. L’esercito tedesco aveva temporaneamente occupato Kerch in novembre, prima che i sovietici si riappropriassero della città.
Ciò era stato sufficiente per le autorità sovietiche a giustificare lo spostamento coatto dell’intera popolazione italofona. Chi era sfuggito alla deportazione di gennaio, fu rintracciato e catturato a febbraio per subire la stessa sorte. Il viaggio verso le steppe kazache fu massacrante e durò per ben due mesi. Una volta giunti nel deserto kazaco, gli italiani dovettero qui sopportare temperature notturne tra i -30 e i -40 gradi. Molte donne e bambini non poterono sopravvivere a condizioni così avverse e i più resistenti cedettero dopo anni nei campi di detenzione.
Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Interno sovietico, solo 460 italiani riuscirono a rivedere la Crimea a seguito della destalinizzazione voluta da Kruscev. Alcuni preferirono stabilirsi nelle steppe kazache, ormai terrorizzati dall’idea di essere riconosciuti come italiani. Infatti, anche molti dei pochi fortunati a fare ritorno in Crimea iniziarono a vivere sottotraccia russificando il nome e preservando la loro identità solo all’interno delle proprie cerchie più intime.
Gli italiani di Crimea sono oggi all’incirca 300, stretti attorno all’associazione CERKIO (Comunità degli Emigrati in Regione di Crimea – Italiani di Origine) che si prodiga di preservare l’identità degli italo-crimeani, promuoverne la storia e consolidarne i rapporti con l’Italia. La comunità preserva ancora molti modi di dire ed espressioni italiani nel parlato, per quanto solo pochissimi siano in grado di esprimersi fluentemente nella nostra lingua. Ciononostante, il senso di appartenenza ad un gruppo etnico-culturale distinto è forte in ogni suo membro.
A seguito dell’annessione russa della Crimea nel 2014, gli italo-crimeani hanno ufficialmente ottenuto giustizia, venendo riconosciuti come “minoranza crimeana perseguitata dallo stalinismo” per volontà del presidente russo Vladimir Putin il 12 settembre 2015. La storica decisione è stata presa durante un incontro a Yalta tra Silvio Berlusconi, la presidente dell’associazione CERKIO Giulia Giacchetti Boico e Vladimir Putin. La forte amicizia tra l’ex presidente italiano e il suo corrispettivo russo ha giocato sicuramente un ruolo importante per la riuscita dell’iniziativa.
Eppure, gli italiani di Crimea restano ancora oggi ignorati e guardati con diffidenza da quello Stato che li dovrebbe considerare come fratelli: la Repubblica Italiana. Infatti, le molte richieste di cittadinanza mosse dalla comunità italo-crimeana sono cadute nel vuoto. Nonostante l’attestata discendenza italiana di queste persone, Roma si è dimostrata restia a prestare loro ascolto.
Tale inaccettabile comportamento da parte delle istituzioni del nostro Paese deve essere rettificato, poiché esse sono chiamate a difendere e onorare chiunque abbia l’orgoglio e la reale volontà di affermare la propria italianità in virtù della propria discendenza. Ciò è poi ancora più rilevante per coloro i quali hanno pagato con il sangue per il solo poter dire: “Я итальянец; io sono italiano”.
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