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Cosa hanno in comune le sterminate pianure russe con le rocciose ed assolate coste tirreniche meridionali? D’istinto diremmo nulla, ma la storia ha permesso la naturale nascita di un longevo e robusto filo rosso che unisce il popolo russo con Napoli e l’intero Meridione. Da una parte un forte impero, la Terza Roma, di sangue slavo e dell’altra l’antico regno della città di Partenope, di stirpe greco-latina. Questi due mondi impararono nei secoli a conoscersi e rispettarsi profondamente. Fu tra ‘700 e ‘800 che molti dotti ed artisti meridionali fecero la loro fortuna alla corte degli zar.
L’irresistibile fascino della cultura italiana
L’Italia è notoriamente culla dell’arte, del pensiero e della bellezza sensu lato della civiltà europea. Fu proprio la nostra particolare sensibilità alla bellezza che diede il via alla spontanea costruzione di questo ponte tra l’Italia e la Russia. I russi conobbero il Bel Paese attraverso grandi artisti ed architetti che vennero sagacemente invitati nelle terre moscovite già a partire dal XV secolo. Ad esempio, la ricostruzione del celebre Cremlino di Mosca fu affidata al vicentino Antonio Gilardi nel tardo ‘400 dal granduca Ivan III.
Questa forte ammirazione da parte dei russi nei confronti dell’ingegno italiano non fece altro che crescere nei successivi secoli. Nel ‘700, l’attenzione imperiale fu attirata in particolar modo dalla vibrante scuola musicale napoletana. Infatti, la Napoli settecentesca era uno dei principali poli europei dell’Opera, il cui tempio era il celebre teatro San Carlo, il più antico teatro europeo moderno. È proprio dal golfo di Napoli che approdò a San Pietroburgo Francesco Araja, primo esponente della scuola dell’Opera napoletana.
La sua abilità di compositore di opere gli valse la nomina a maestro di cappella alla corte dei Romanov nel 1735, titolo che mantenne tra i regni dell’imperatrice Anna ed Elisabetta. Le sue rappresentazioni teatrali erano spesso ambientate in scenari legati alla storia greco-romana e alla mitologia classica in linea con il gusto neoclassico settecentesco. Araja fu così come un pionere: dopo di lui, molti altri sudditi napoletani vennero chiamati nella San Pietroburgo imperiale per volontà di zar e zarine.
Tra questi è giusto ricordare il tarantino Giovanni Paisiello, abile compositore, e il napoletano Domenico Cimarosa, eccellente cantante, commediografo e drammaturgo. Ma non solo Opera: Napoli fornì anche uno dei principali architetti per l’ampliamento e la magnificazione della capitale San Pietroburgo. Parliamo di Carlo Rossi, naturalizzato Karl Ivanovich Rossi in russo, figlio di un ballerino napoletano di origini francesi ed una ballerina d’opera russa di medesime origini francesi.
Il franco-partenopeo fu investito del nobile compito di rendere la città di Pietro il Grande ancora più maestosa. Il suo stile fu grandiosamente asciutto, prediligendo un senso di serietà imperiale. Egli disegnò il Palazzo Mikhailovsky, il Teatro Alexandrinsky, i palazzi del Senato e del Sinodo, la facciata della Biblioteca Nazionale Russa e tanti altri edifici. San Pietroburgo non era in ogni caso assolutamente estranea allo stile italiano. Essa era una città stilisticamente italiana già ab origine.
Pochi anni dopo la sua fondazione nel 1703, il fiorentino Bartolomeo Rastrelli assurse a principale architetto della nuova capitale, donandole quella maestosità ed armonia tipiche del senso italiano della misura. Ma il rapporto tra Bel Paese e Russia non fu unidirezionale. Anche grandi artisti russi vennero in Italia, facendo conoscere la profonda anima del popolo slavo.
Tra questi è significativo il vedutista Sylvester Shchedrin, formatosi presso l’Accademia Imperiale delle Arti. Visitò l’Italia per la prima volta nel 1818 all’indomani della sconfitta di Napoleone e del Congresso di Vienna. Fu folgorato dalla bellezza della Penisola, tanto da non lasciarla più. Studiò a Roma i grandi maestri del passato e ben presto si cimentò in meravigliosi dipinti della Città Eterna e di Napoli. Sono note le sue rappresentazioni della capitale meridionale e di altri famosi luoghi campani come Capri e Sorrento, in cui morì nel 1830 all’età di soli 39 anni. Il suo pennello fu talmente raffinato da influenzare la stessa arte napoletana, divenendo uno dei fondatori della Scuola di Posillipo.
Dostoevskij e Napoli: geograficamente lontani ma interiormente vicini
Durante l’Ottocento anche un altro russo visitò l’Italia innamorandosene: Fyodor Dostoevskij. Il genio moscovita processò la bellezza incommensurabile del Bel Paese interiorizzandola all’interno della sua immensa anima russa. A Firenze scrisse, nel 1868, il suo romanzo “L’idiota”, un vero e proprio capolavoro della letteratura mondiale. È all’interno di quest’opera che l’incontro tra Dostoevskij e Napoli partorì un significativo aforisma sulla città: “Napoli è un luogo dove la Terra respira il mistero”.
Lo scrittore vedeva in Napoli una sorta di nuova Gerusalemme, un luogo dove la quotidianità non è “fango”, ma bellezza autentica e senza filtri. Potremmo individuare un nesso tra il suo più famoso aforisma “мир спасёт красота” (la bellezza salverà il mondo) e la concezione mistica e salvifica che Dostoevskij aveva per Napoli. La capitale del Sud non è dominata da quella falsità borghese o dal mostro della modernità. In essa convivono le ancestrali origini greche con l’espansione romana, il fiero periodo medievale con lo spagnoleggiante spirito moderno.
Napoli è stata tante cosa, ma essa è in quanto tale: non è stata sciolta, ma si è preservata osservando incuriosita l’altro. Possiamo evidenziare qui un sostrato che lega napoletani e russi, a dispetto delle differenze contingenti. Dostoevskij mette la bellezza (красота) al centro in virtù della sua natura ontologicamente giusta e salvifica, sulla falsariga del greco “καλὸς καὶ ἀγαθός” (bello e buono). Per la civiltà greca, la bellezza era espressione di equilibrio, benessere, correttezza.
La verità non poteva che essere corrisposta dalla bellezza. Tale assunto è di fatto egualmente condiviso dal pensiero di Dostoevskij che vede nella bellezza una connessione con un passato non divorato dal crescente nichilismo del mondo moderno. È possibile individuare un parallelismo sull’ideazione della bellezza per i russi e per i napoletani. Simbolico è l’utilizzo dell’aggettivo “bello” con il significato di “buono” nella lingua napoletana, chiaro lascito dell’origine ellenica della città.
Il russo tende a declinare la bellezza come un sacrificio: essa si annida tra le asperità della vita, come una speranza escatologica. È lo specchio della rigidità del clima e della natura russa, tanto meravigliosa quanto ardua; così come della storia russa, tanto ricca quanto sofferta. Il napoletano, invece, tende a considerare la bellezza come un elemento imprescindibile e consolatorio. Non è una speranza sommessa, ma una gioia da esprimere. Qui si può notare il clima e la natura mediterranea così solare, prospera e favorevole.
L’anima dei due popoli è però pressoché uguale: russi e napoletani sono capaci di grandi introspezioni, abili nell’analizzare la complessità della realtà nella sua nuda interezza. L’unica differenza si presenta nel modo di vivere tale consapevolezza. Il russo è riservato, riflessivo, malinconico, introverso. Il napoletano è partecipativo, ironico, nostalgico, estroverso.
L’uno è la versione estroversa o introversa dell’altro, con alla base la medesima visione del mondo. Luciano De Crescenzo affermerebbe che napoletani e russi sono entrambi “popoli d’amore”. Il popolo napoletano, e più genericamente il Meridione d’Italia, è per il popolo russo il negativo di una stessa fotografia. Ciò era forse quello che Dostoevskij tanto amava della città di Federico II.
Non solo cultura: i rapporti diplomatici tra Regno di Napoli e Impero Russo
Non fu solo la cultura a creare un solido rapporto di reciproco rispetto tra il regno mediterraneo e l’impero euroasiatico. San Pietroburgo vide Napoli come un alleato potenzialmente fondamentale per l’atavica ricerca della Russia di avere basi permanenti in mari caldi. I rapporti diplomatici ebbero ufficialmente inizio nel 1779 quando il Conte Andrey Kirillovich Razumovsky fu nominato primo ambasciatore russo a Napoli e sull’intero suolo italiano.
Tale clima di collaborazione permise la nascita anche di una vivacissima comunità italiana nella nuova città di Odessa, fondata dal nobile napoletano De Ribas per volontà della zarina Caterina II la Grande. L’atteggiamento cordiale mutò in uno spirito di vera e propria alleanza all’indomani della Restaurazione. Infatti, sia il Regno delle Due Sicilie (il nuovo nome conferito al Regno di Napoli dopo il Congresso) sia l’Impero Russo si ponevano come baluardi reazionari e tradizionalisti nella nuova Europa.
Napoli avrebbe potuto essere una sorta di appendice della Santa Alleanza, oltre che un ottimo punto di appoggio per le mire geopolitiche di San Pietroburgo. Tali congetture geopolitiche andarono a combaciare con un clima culturale favorevole, ma anche con una sincera amicizia nata spontaneamente tra i sovrani dei rispettivi regni. La zarina Aleksandra Fёdorovna, moglie dello zar Nicola I Romanov, si trovò a combattere con un aneurisma al cuore diagnosticatole nell’estate 1845 poco dopo la morte della figlia.
I medici di corte le raccomandarono di passare l’estate in un luogo molto più caldo e asciutto rispetto all’umido Golfo di Finlandia. La scelta ricadde proprio sul Regno delle Due Sicilie, in virtù della profonda conoscenza dell’Italia del fratello della zarina, Friedrich William. L’imperatrice soggiornò in una piccola villa di Butera, vicino Palermo, messa a disposizione dalla principessa Shahoskoy. La moglie fu accompagnata dallo zar in persona, che però vi rimase per soli quaranta giorni a causa delle incombenze politiche. Aleksandra esperì un enorme miglioramento alla sua salute, tanto da restare in Sicilia fino alla primavera del 1846.
Al momento della loro partenza, il convoglio imperiale decise di fermarsi a Napoli così da poter ringraziare il sovrano napoletano Ferdinando II del piacevole soggiorno. Qui Nicola I incontrò per la prima volta il re Borbone di cui ne apprezzò le buone maniere e la simpatia. Consigliò al sovrano napoletano di diffidare sempre dell’Impero inglese e di coltivare cordiali rapporti con la Francia e l’Austria. Ritornato a San Pietroburgo, lo zar decise di donare alla città di Napoli quattro statue equestri presenti sul ponte Anickov sul fiume Neva dal 1841.
Tale dono fu trasportato via nave nella città mediterranea da un rinomato marinaio procidano che portò a termine l’incarico senza imprevisti. Queste statue sono oggi poste all’ingresso del cancello del Palazzo Reale prospiciente il Maschio Angioino. Lo zar non fu meravigliato solo dalla bellezza paesaggistica e la ricchezza storico-artistica del regno, ma anche dagli evoluti poli scientifici e tecnologici come la Stazione Zoologica, l’Osservatorio Reale, il Real Officio Topografico ed il Reale Opificio di Pietrarsa. Quest’ultimo aveva permesso la costruzione della prima linea ferroviaria italiana nel 1839, la Napoli-Portici.
Lo zar, infatti, lo prese come modello industriale, replicando lo stabilimento di Pietrarsa nell’isola di Kronstadt. Ferdinando II onorò sempre la sua amicizia con Nicola, tanto che si rifiutò categoricamente di partecipare alla Guerra di Crimea (1853-1856) nonostante le pressioni franco-inglesi, continuando persino i commerci con l’Impero Russo. Ma proprio la sconfitta dell’alleato russo sarebbe stata uno dei motivi della vittoriosa invasione del regno napoletano nel 1860 ad opera di Garibaldi.
La Russia, indebolita militarmente dalla guerra crimeana, si trovava impossibilitata a fornire adeguato soccorso all’alleato attaccato dagli irregolari garibaldini. Il Ministro degli Esteri russo Aleksandr Michajlovič Gorčakov non poté fare altro che presentare le sue rimostranze, affermando che “se la posizione geografica della Russia lo permettesse, il suo Signore sarebbe stato disposto a impugnare le armi per difendere i Borboni di Napoli, senza curarsi del non intervento proclamato dalle Corti occidentali”.
Neanche l’accorato appello alle altre cancellerie d’Europa poté fermare l’invasione garibaldina protetta navalmente e diplomaticamente da quella Londra in cui Nicola I aveva già individuato un motivo di futura destabilizzazione del Mediterraneo. I proficui ed estesi rapporti socioculturali tra Napoli e Russia non si sarebbero comunque fermati come testimoniano le parole di Dostoevskij o la scrittura della canzone ‘O Sole Mio nel 1898 nella città di Odessa.
Tale canzone sarebbe poi stata addirittura cantata nello spazio da Juri Gagarin il 12 aprile 1961. Fu curiosamente un russo che portò la lingua napoletana letteralmente nello spazio. E oggi di tutto questo cosa rimane? Molto, a dire il vero. Sebbene non tutti conoscano questo antico ponte che unisce l’Italia alla Russia, esso vive indipendentemente nell’anima dei due popoli. Volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, siamo sempre il risultato dei secoli e millenni di storia che ci hanno preceduto.
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