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Il rinnovato scontro tra Israele e Palestina, così come il confronto tra Iran e Stato ebraico in questi giorni, ha testimoniato per l’ennesima volta la centralità del Medioriente per gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta. È ormai da decenni che quest’area del mondo è soggetta a scontri, conflitti e interventi stranieri atti a stabilire una tanto agognata supremazia sulla regione. La Siria ha rappresentato dal 2011 un campo di battaglia continuo per le aspirazioni di Turchia, USA, Qatar, Arabia Saudita, Russia, Iran e gruppi salafisti. Fu alla fine Mosca ad intervenire direttamente nelle faccende siriane, avendo l’obiettivo di preservare la struttura statale di Damasco e impedire l’assestamento del nascente Stato Islamico.
Una presenza di lunga data: l’Unione Sovietica ed il Medioriente
Fino al collasso del 1991, l’Unione Sovietica aveva coltivato sin dal dopoguerra una prolifica e poliedrica politica estera nei confronti del Medioriente. Essendo stata la prima entità statale socialista, Mosca ebbe un forte ascendente sui Paesi mediorientali appena liberatisi dai colonialismi occidentali. La vocazione anticoloniale ed emancipatoria del socialismo sovietico ispirò parzialmente il panarabismo ba’atista di Michel Aflaq.
Infatti, Nasser, Gheddafi e Hafez al-Assad procedettero nel perseguire uno sviluppo economico ed industriale fortemente statalista. Il Cremlino favorì alacremente l’industrializzazione regionale. Finanziò importantissime opere come la diga di Aswan e il complesso metallurgico di Isfahan. Al 25 dicembre 1991, l’Unione Sovietica aveva portato a termine circa 350 progetti industriali in tutto il Nord Africa e Medioriente.
Ma non solo industria e commercio; l’URSS era anche il punto di riferimento militare per moltissimi paesi, tra i quali proprio la Siria. Le forniture militari a Damasco fruttavano alle casse sovietiche ben 11 miliardi di dollari a metà anni ’80. L’ascendente di Mosca travalicava i meri rapporti economici, in virtù della forte influenza sulle classi dirigenti locali che spesso si dirigevano in Russia per portare a termine il loro ciclo di studi.
Nacque infatti una componente filorussa in seno alla società siriana, alla luce anche della formazione di famiglie siro-russe. Come se non bastasse, tale processo di inveterata amicizia venne ulteriormente sugellato dalla creazione della base navale di Tartus nel 1971. Questo complesso militare è ancora oggi il principale punto d’appoggio della Marina russa nel Mar Mediterraneo, fondamentale per le capacità di proiezioni della forza che da sempre Mosca insegue in tale zona.
Il collasso dello Stato sovietico fu quindi un vero e proprio trauma per quei Paesi mediorientali che si ostinavano a non scendere a compromessi con il fronte americano-sionista. La neonata Federazione Russa guidata da Boris Yeltsin, infatti, non aveva alcuna intenzione di perseguire quella politica estera spiccatamente terzomondista. Questo innaturale atteggiamento sarebbe stata ad ogni modo soltanto una parentesi.
Da Boris Yeltsin a Vladimir Putin
La fine dell’Unione Sovietica e la turbolenta salita al potere di Boris Yeltsin segnarono per la Russia l’inizio di un decennio terribile. Corruzione, povertà, bandit capitalism, terrorismo e criminalità segnarono gli anni ’90 russi. Anche dal punto di vista geopolitico la situazione non fu affatto migliore. Mosca si trovò a dover fare i conti con una proiezione di forza estremamente ridotta a causa delle ristrettezze economiche e della perdita delle ex repubbliche confederative sovietiche.
I rapporti con il Medioriente furono praticamente tranciati, come testimonia la misera percentuale di scambi commerciali con gli Stati mediorientali (meno dell’1% di tutto il bilancio a metà anni ’90). La Siria non fu un’eccezione, tanto che la stessa base navale di Tartus fu lasciata quasi in stato d’abbandono. Tale inattività fu mossa anche dal nuovo obiettivo strategico di Yeltsin: la necessità di costruire un partneriato strategico con gli Stati Uniti, riconoscendone la superiorità in campo geopolitico.
La Russia post-sovietica intendeva entrare nel consesso delle nazioni occidentali, rinunciando a tutte le politiche terzomondiste del XX secolo. A riprova di tali intenzioni, nel 1995 Russia e Stati Uniti strinsero in segreto l’accordo Gore-Chernomyrdin. Ciò rappresentava un compromesso tra le due parti: gli USA avrebbe rinunciato a fornire assistenza militare agli Stati europei orientali e mediorientali, mentre la Russia si sarebbe altrettanto astenuta dall’armare l’Iran.

Tale disimpegno non sarebbe comunque durato a lungo. L’avvento di Putin nel 2000 si sarebbe aperto con un chiaro segnale di riavvicinamento agli ex alleati mediorientali e di rinnovata indipendenza strategica che avrebbe segnato una sempre maggiore tensione tra Mosca e blocco NATO. La Russia si mostrò nuovamente come un soggetto attivo stringendo solidi rapporti con la Lega Araba e diventando osservatore nel 2005 dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica in virtù dei popoli musulmani abitanti la Federazione Russa (circa il 14% della popolazione).
Putin si mosse anche dal punto di vista della soft power, avendo cura di diffondere nuovamente lo studio della cultura russa. L’organizzazione Ruskij Mir, così come l’apertura di una sezione mediorientale di Russia Today giocano tutt’oggi un importante ruolo nel definire l’immagine che la Russia vuole di sé. Mosca si prodigò anche nel recuperare i contatti con la Siria di Bashar al-Assad, figlio del defunto Hafez.
Ad eccezione della parentesi dell’allora occidentalista Dmitry Medvedev (2008-2012), la Russia andava ritagliandosi nuovamente la propria dimensione nel mondo islamico come polo alternativo. La sua azione, però, era ancora vista come poco incisiva. In particolar modo gli Stati del Golfo, occasionalmente ostili alle mire russe, vedevano in Mosca un interlocutore lontano dalla risolutezza dell’Unione Sovietica.

La Russia era un attore estremamente vivace, ma poco capace di influenzare i destini mondiali. L’invasione dell’Iraq del 2003 e il rovesciamento di Gheddafi nel 2011 ne erano esemplificativi. Questo mise Mosca davanti alla necessità di aumentare il proprio peso geopolitico. Le primavere arabe e lo scoppio della guerra civile siriana misero il Cremlino con le spalle al muro: vedere la propria influenza sparire oppure reagire con forza.
Fare ordine nel caos: la guerra in Siria
Quando nel 2011 la Siria cadde in guerra civile, molti analisti occidentali arguivano che la tenuta del regime di Assad non avrebbe avuto lunga vita. Tale lettura si sarebbe rivelata falsa in virtù delle tante fazioni e delle numerose ingerenze esterne. La Siria si trasformò presto in un’arena in cui i più disparati attori internazionali iniziarono più o meno direttamente a sfidarsi.
Mosca fu sin da subito attiva per tentare di trovare una mediazione atta a preservare la propria forte influenza sul Paese. Infatti, la storica intesa con la famiglia Assad e la presenza della già menzionata base di Tartus obbligava il Cremlino a dover agire con efficacia così da evitare che altre potenze potessero riempire il vuoto di potere causato da un’eventuale caduta di Damasco. Inizialmente, la Russia si mosse da un punto di vista prettamente diplomatico.
Oltre a partecipare alle conferenze ONU a Ginevra, furono organizzate i simbolicamente importanti quanto fattivamente inconcludenti incontri di Mosca tra l’opposizione siriana e il governo legittimo tra il 2013 e il 2015. L’obiettivo era quello di intavolare un dialogo capace di trovare un compromesso tra le due parti, così da avviare un processo di pace. L’opposizione accettata dal Cremlino era solo quella laica. Islamisti e fondamentalisti rappresentavano minacce da dover liquidare.
È importante sottolineare che la minaccia terroristica rappresentava per la Russia una vitale questione di politica interna. Infatti, Mosca aveva affrontato negli anni precedenti il terrorismo ceceno. Questo aveva provocato due guerre dirette con la Repubblica di Cecenia, nonché efferati attentati come quelli di Beslan e Dubrovka. I terroristi ceceni sopravvissuti avevano trovato nel conflitto in Siria una nuova ragion d’essere. Anche altri foreign fighters dal Caucaso e dall’Asia Centrale si arruolarono presto nelle fila dei fondamentalisti islamici siriani.

Per quanto profusi, gli sforzi diplomatici non sortirono alcun reale effetto sulla guerra civile che diveniva sempre più brutale. La nascita dell’ISIS non fece altro che rendere la questione ancora più minacciosa per gli equilibri mondiali. Fu solo la ferma opposizione del Cremlino a scongiurare un potenziale intervento NATO diretto, il cui casus belli sarebbe stato l’uso di armi chimiche nell’agosto 2013 nei dintorni di Damasco. Bashar al-Assad venne immediatamente incolpato dell’accaduto dal mondo occidentale, per quanto nessuna indagine avesse mai appurato la veridicità di tali accuse.
Intanto, l’opposizione siriana, così come svariati gruppi islamisti, andavano rafforzandosi grazie al supporto di Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Il 2015 fu un anno cruciale per le sorti della Siria. Le forze lealiste accusarono alcuni primi segni di cedimento. Damasco perse l’importante città di Idlib per mano di al-Nusra, così come Palmira soggetta alla brutale occupazione dell’ISIS. La sconfitta di Assad avrebbe significato per il Cremlino la perdita di un importante alleato e il proliferare del fondamentalismo islamico nel mondo. La situazione era tale da richiedere misure drastiche che non tardarono ad arrivare. La Russia scopriva tutte le carte: era giunto il momento di un’operazione militare.
Il coinvolgimento russo
L’azione militare fu di portata storica per due principali motivi. Per la prima volta dalla caduta dell’URSS, la Russia si cimentava in un conflitto lontano dai propri confini.
Inoltre, l’attacco sarebbe stato caratterizzato da una supremazia aerea senza l’utilizzo di ingenti forze terrestri russe, sulla falsariga della dottrina statunitense. Il governo russo ottenne in concessione così la base aerea di Khmeimim che fu rapidamente ristrutturata ed ampliata. Da qui le forze aeree avrebbero potuto operare liberamente.
Il 30 settembre 2015, l’aviazione russa avviò una massiccia campagna di supporto aereo ravvicinato per le controffensive governative verso Idlib, Palmyra e Deiz ez-Zor. Grazie anche alla preziosa cooperazione militare con l’Iran, tale azione si rivelò fondamentale per ridare slancio al provato esercito siriano. Questa dimostrazione di forza da parte della Russia colse di sorpresa l’intera comunità internazionale che non riteneva la Russia capace di proiettare la propria forza efficacemente così lontana dal proprio epicentro.
Ciò trasformò il Cremlino nell’interlocutore numero uno per quanto concerneva la guerra siriana. I vari attori in campo dovettero man mano uniformarsi agli obiettivi strategici russi: creare una coalizione internazionale contro l’ISIS e accettare nuovamente Assad nel consesso della diplomazia globale. Memori dell’esperienza afgana di qualche decennio prima, Mosca annunciò nel marzo 2016 un parziale ritiro delle sue forze armate nel conflitto. L’obiettivo di far pendere di nuovo l’ago della bilancia in favore di Damasco era stato raggiunto con successo.

Un cessate il fuoco stabile fu raggiunto nel 2017, in seguito alla sconfitta sul campo dello Stato Islamico. Da quel momento in poi, la situazione sarebbe rimasta generalmente stazionaria. L’intervento militare russo aveva portato sicuramente ad una stabilizzazione del conflitto, ma questo è ad oggi ben lungi dall’essere risolto. Il governo siriano controlla la maggior porzione del territorio nazionale internazionalmente riconosciuto, ma molte aree sono ancora occupate da forze non-governative. L’ex Al-Nusra è ancora trincerata nella regione di Idlib, supportata dall’esercito turco.
Le milizie curde controllano la parte orientale del Paese, per quanto cenni di un possibile riappacificamento con Damasco abbiano iniziato a palesarsi. Gli Stati Uniti controllano la base di Al-Tanf nel meridione, mentre Russia e Iran possiedono decine di basi su tutto il territorio siriano. Sarà fondamentale osservare come e se la Siria potrà tornare ad essere una nazione unita. Infatti, lo status quo attuale non può essere definitivo ed il pericolo di eventuali recrudescenze del conflitto permane. L’intervento del 2015 fu ad ogni modo uno spartiacque geopolitico. La Russia aveva riaffermato con decisione la sua capacità di asserire i propri interessi strategici.
Altri eventi come l’occupazione della Crimea del 2014 e il conflitto nel Donbass allargatosi in una vera e propria guerra convenzionale nel 2022 tra Kiev e Mosca hanno decretato un netto cambio di rotta. La Russia ha riacquisito il suo ruolo di polo a sé stante, desiderosa di affermare le proprie ambizioni strategiche. La storia si è rimessa ufficialmente in moto anche nel Vecchio Continente. Starà a tutti noi riuscire a cavalcarla o esserne travolti.
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