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Il Medioriente è di nuovo in fiamme. Dopo l’allargamento del conflitto russo-ucraino nel febbraio 2022, il 2023 è stato protagonista di una nuova guerra. In questi primi giorni d’ottobre la Palestina si è di nuovo sollevata contro Israele. Il rapido ed efficace attacco delle brigate al-Qassam hanno permesso un risultato senza precedenti per i palestinesi: penetrare in territorio israeliano e provocare pesanti perdite umane.
La rappresaglia di Tel Aviv è stata immediata, atta a piegare una volta per tutte il potere di Hamas sulla Striscia di Gaza. Israele assicura anche un’imminente invasione di terra in vecchio stile. Nel frattempo, i bombardamenti dell’aviazione radono al suolo le abitazioni palestinesi. Lo spettro di un ampliamento regionale del conflitto aleggia nell’aria.
Questa recrudescenza è solo l’ultima di un lungo conflitto. La questione israelo-palestinese non è novità di questo secolo e neanche di quello scorso. Esso ha le sue radici alla fine dell’Ottocento con la nascita dell’ideologia sionista.
La nascita di un nazionalismo etno-religioso
L’idea di Stato ebraico nacque sul finire dell’Ottocento. L’Europa era in subbuglio e il Congresso di Vienna non era riuscito a sedare la vitalità dei più disparati nazionalismi del Vecchio Continente. Nuovi Stati unitari come l’Italia e la Germania erano da poco sorti e intendevano ricollegarsi ai destini di gloriose forme statali passate.
Il popolo ebraico non fu immune a tali rivolgimenti socioculturali. Esso era disseminato in moltissime regioni europee, in particolar modo tra la Germania, la Polonia, la Lituania, la Bielorussia e l’Ucraina. Anche città di recente fondazione come Odessa presentavano a cavallo dei due secoli una forte componente ebraica demografica e finanziaria.
La storica incompatibilità tra Cristianesimo ed Ebraismo, così come il sempre più crescente peso economico delle comunità giudaiche portarono in rotta di collisione i nativi europei con gli elementi ashkenaziti. Nuove ondate di pogrom ebbero luogo, tra cui quelli occorsi nel 1881 in tutta la Russia meridionale furono tra i più violenti.
È proprio alla luce di questi tumulti che nella mente di diversi pensatori giudaici si configurò l’idea di un movimento nazionale basato sull’identità etno-religiosa. Il primo a redigere un’opera che auspicasse alla realizzazione di un’entità sionista fu Leon Pinsker, medico ebreo odessita.
Egli pubblicò un opuscolo intitolato “Autodeterminazione” nel 1882 in cui vedeva un territorio per gli ebrei come unica possibile soluzione affinché il suo popolo potesse guadagnare dignità e potere lontano dalle resistenze dei nativi europei. Pinsker non credeva che il ritorno in Palestina dovesse essere categorico, bensì era disposto a prendere in esame anche altre regioni pur di fondare il nuovo Stato.
Ciò metteva in evidenza l’assioma centrale dell’identità ebraica, ovvero che l’ethnos sussiste in quanto tale in virtù di un’appartenenza religiosa ed etnica comune al di là di un dato territorio. D’altronde, la diaspora aveva reso gli ebrei un popolo senza patria, abituato a vivere in piccole o grandi comunità in terra straniera.
Le idee di Pinsker diedero il via alla prima aliyah (ondata migratoria) in Terra Santa che, a differenza dell’opinione dell’odessita, venne vista come la terra primigenia da colonizzare e riconquistare per gran parte dei sionisti. Venne istituita l’organizzazione “Amanti di Sion” che si preoccupò di indirizzare i primi gruppi di coloni in Palestina. Tale organismo fu solo il primo dei tanti che spalancò le porte ad una immigrazione sistematica e razionalizzata.
Theodor Herzl
Il grande cambio di passo si ebbe grazie alle posizioni di Theodor Herzl, giornalista ebreo viennese. Egli scrisse nel 1896 il suo saggio “Der Judenstaat” (Lo Stato ebraico) in cui invocava la creazione di uno Stato giudaico mirante a relegare nel passato le angherie, le lotte e le difficoltà incontrate dagli ebrei in Europa.
Il concetto di Stato in Herzl era basato sull’esperienza della Rivoluzione Francese e, almeno nelle prime fasi, esso non era necessariamente legato ad una genesi in terra palestinese. La vena più mistica e religiosa, però, prese rapidamente il sopravvento.
Durante il primo congresso sionista a Basilea nel 1897, le proposizioni di Herzl vennero sugellate con la creazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale che mirava esplicitamente a creare una patria per il popolo ebraico in Palestina. La maggioranza dei membri avevano infatti una visione più romantica e millenaristica.
Da una parte fascinazioni nazionaliste vedevano nel sionismo il frutto dello spirito eterno della nazione. Dall’altra la tipica predestinazione religiosa del “popolo eletto” dettava di riconquistare la terra d’Israele per ricostruire il Tempio di Gerusalemme distrutto dalle legioni di Tito nel 70 d.C. e così permettere la venuta del “vero” messia.
La via era ormai stata tracciata. I successivi pogrom del 1905 a seguito della fallita Rivoluzione Russa di quell’anno, in cui molti ebrei presero attivamente parte, provocarono la seconda aliyah che velocizzò la costruzione delle fondamenta dello Stato ebraico in Palestina.
La costruzione d’Israele
La Prima guerra mondiale fu la prima opportunità capitale sia per i sionisti che per i palestinesi di aspirare alla sovranità. Gli inglesi furono presto interessati ad accordi segreti circa lo smembramento dell’Impero ottomano, velleità ufficializzate con l’accordo Sykes-Picot del 1916 tra Francia e Gran Bretagna. Londra optò per giocare su due tavoli contemporaneamente. Furono stabiliti prima dei rapporti con Hussein, sceriffo della Mecca.
L’hascemita avrebbe combattuto contro gli ottomani e in cambio gli inglesi fecero promesse di una non ben precisata indipendenza araba. La Gran Bretagna giocò sull’incomprensione delle rispettive categorie. L’ideale panarabo considerava la Palestina come parte integrante della Grande Siria, ma ciò non era mai stato esplicitamente menzionato dai funzionari della Corona.
Nonostante le ripetute azioni militari arabe, coordinate anche dal leggendario Lawrence d’Arabia, alla fine delle ostilità gli inglesi non tennero fede alle proprie promesse. La Palestina divenne un protettorato inglese, mentre il resto del Vicino Oriente finì con l’essere spartito tra Parigi e Londra.
I sionisti, invece, seppero far valere maggiormente le proprie rivendicazioni. Questo fu possibile anche grazie alla presenza di vari membri influenti nella società imperiale britannica di inizio ‘900. Tra questi, il chimico Chaim Weizmann esercitò una forte pressione sul governo britannico per giungere allo Stato tanto agognato dal sionismo.
Egli era tra gli studiosi vitali per la sintesi dell’acetone, procedimento essenziale per la produzione di esplosivi. Weizmann riuscì a strappare alla fine una dichiarazione scritta all’ex Primo ministro Arthur Balfour. La dichiarazione Balfour del 1917, passato così alla storia, fu inviata anche al potente Lord Rothschild come controprova della futura implementazione del suo contenuto.
In essa, “il governo di Sua Maestà vedeva con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Veniva anche specificato, però, che la Corona non avrebbe pregiudicato i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche. Questa neutrale ambiguità mostrata da Balfour, però, risultò essere il primo passo giuridicamente consistente per la creazione dello Stato d’Israele.
Chi conosce la storia lo sa bene: una concessione è quasi sempre il trampolino verso un processo di allargamento e rimodulazione dello status iniziale. Con la vittoria dell’Intesa nella Prima guerra mondiale, gli inglesi poterono amministrare la Palestina e dar fede alle promesse concesse ai sionisti che immediatamente si prodigarono per perseverare nei loro piani.
Il primo Alto Commissario per la Palestina, Sir Herbert Samuel, si preoccupò di trovare un equilibrio tra arabi palestinesi ed ebrei. All’atto pratico egli non fece altro che favorire l’insediamento e la colonizzazione ebraica lasciando campo libero alla razionale coordinazione del Fondo Nazionale Ebraico e dell’Associazione Coloniale Ebraica.
Il sistematico rapido aumento dei coloni giudaici portò velocemente ai primi scontri tra palestinesi ed ebrei nel 1921 con i moti di Nabi Musa. La questione arabo-israeliana era ufficialmente iniziata. Gli arabi iniziarono a combattere strenuamente per difendere la propria terra e i propri interessi.
Molti altri scontri, tra cui i moti del Muro del Pianto del 1928 e la Grande Rivolta Araba del 1936, furono solo un’anticipazione delle diverse guerre occorse in seguito tra mondo arabo e Stato d’Israele all’indomani dell’indipendenza di Tel Aviv nel 1947.
La questione arabo-israeliana oggi
La violenta escalation di queste settimane in Terra Santa è, dunque, solo l’ultima di una irrisolvibile questione che va avanti da più di un secolo. Come si intuisce, a renderla tale vi sono posizioni assiali non negoziabili per ambo le parti. L’idea esclusivista dello Stato ebraico, contorniata dalla convinzione di alcune frange di essere investiti di una missione divina di superiorità sugli altri popoli, è di matrice squisitamente etno-religiosa.
L’appartenenza al mondo occidentale americanocentrico con il suo episteme e i suoi costumi gioca un ruolo niente affatto secondario nel creare uno spartiacque ancora più netto tra Israele e mondo arabo. Dall’altra parte, il mondo islamico non può essenzialmente accettare la liceità dello Stato ebraico.
Gli accordi di Oslo del 1993 e le politiche di normalizzazione dei rapporti tra Stati arabi e Tel Aviv vanno visti più come decisioni temporanee e di Realpolitik che non hanno mai rispecchiato un sincero senso di compromesso (e, in realtà, capitolazione) dell’umma islamica. Per il musulmano medio e buona parte delle élite politiche l’appropriazione della terra palestinese ad opera degli ebrei sionisti è una negazione della propria ragione d’essere.
I ripetuti soprusi e conflitti tra i due schieramenti non hanno fatto altro che confermare la reciproca incompatibilità. Rebus sic stantibus, una soluzione diplomatica e/o di coesistenza permanente è inconciliabile con l’ousia di entrambe le compagini.
La tensione globale cresce sempre più vertiginosamente. L’Ovest è in decadenza e non vuole cedere la sua predominanza ereditata dalla fine della Guerra Fredda. L’Est, in rapida espansione e sempre più alieno agli assunti globalisti occidentali, rivendica una posizione di maggior rilievo ed effettiva sovranità.
Il confronto tra Hamas e Israele è l’ennesimo atto di quella che sembra proprio “una guerra mondiale a pezzi”. Il futuro ci dirà se questi pezzi verranno riuniti in un conflitto generalizzato vero e proprio.
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